Il pezzo bisognava finirlo e spedirlo in redazione entro la tarda mattinata. Erano gli anni in cui lavoravo per un giornale di provincia, in una città del sud. E la città mesta mi irritava oltre che intristirmi come una mannaia, implacabile sul mio orizzonte di piombo. Battevo sui tasti, pensando alla metropoli di Buzzati.

La mia città non è la metropoli di Buzzati, non ha falansteri, ha un grigiore di vicoli piuttosto, un dopo festa comune, i soliti inferni, vecchi e anche nuovi. Vegliavo sul resto, del resto non mi importava, ma bisognava chiudere il pezzo con il resto delle cose. La mia festa non brillava, forse era Natale, niente luminarie, festa da retrobottega al massimo, da creduloni retrattili alle lampadine colorate. Meditavo, battendo sui tasti: siamo penitenti senza volerlo, siamo soli fino alla fine. Rischiavo grosso. Patetismo innanzitutto. Curavo una rubrica, così cominciavo a realizzare che la stessa avrebbe rivelato oltremodo le preoccupazioni, le paure, le ossessioni più innominabili che perlopiù erano le mie. Il fatto mi procurava un certo disagio.

La meta-scrittura utilizzata era l’alibi per concludere un processo di svelamento, che sapevo inarrestabile. Era come aver levato la stura ad ogni inibizione, bisognava raccontare i tormenti dell’animo umano, attraverso la vita apparentemente innocua del cosiddetto uomo di strada. Dunque tornavo al tempio (è una piazza, ma per tutti era il tempio), sedevo sul solito talamo, fissando il leggio davanti al rudere, provavo a immaginarmi diversa, provavo a immaginarmi integra, liberata dal dolore. Il dolore è un’opportunità, forse. Dico, lo è senz’altro, intanto occorreva attraversare l’ora del deserto, e vi rifletto adesso.

A ricordarmelo bastava che incontrassi Tereza o l’uomo dell’est, ancor prima che l’uomo della strada. E lo vedevo il suo bivacco, il cane randagio, le pustole al collo, il tanfo di urina. Non resistevo oltre, la testa girava. Oh, era un uomo solo altroché, non meno che i suoi cari, lasciati al gagno, mollati, lapidati, nella latrina della vergogna, dove ogni rimpianto è stato scalciato al primo sciacquone. Chi mi avrebbe salvato? 

La Repubblica tradita

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