Una struttura museale di 27mila metri quadrati, uno spiazzale immenso, un’installazione sospesa nell’aria, gialla e fluttuante, vincitrice dello Yap 2013il progetto che premia i giovani astri nascenti dell’architettura e accanto, tre vistosi container che si affacciano su via Masaccio. E’ quello che si vede oggi guardando il Maxxi, il museo d’arte contemporanea a Roma firmato dall’archistar mondiale, Zaha Hadid e inaugurato nel maggio del 2010. Se si osservano i container si pensa a delle nuove originali installazioni, ma all’interno dei ‘bussolotti’ ci sono, invece, gli uffici di segreteria e di presidenza della Fondazione a capo del museo.

Nel primo container, quello più ampio, si reca ogni mattina Giovanna Melandri, la presidente del Maxxi. Proprio lei. Lì si trova la sua poltrona, la sua scrivania. A seguire ci sono gli uffici informatici e amministrativi, all’interno di quattro mura d’acciaio, mobili, dove la calura estiva, nonostante i condizionatori d’aria, si fa sentire. Container presi a noleggio da gennaio fino alla fine dell’anno. “L’idea provvisoria – ci tengono a specificare dal suo staff – è venuta alla stessa Melandri, un modo per stare a contatto ogni giorno con il museo, gli artisti e i visitatori”. “Voi de ilfattoquotidiano.it di sicuro scriverete che è un ‘capriccio della presidente’, ma non lo è, noi abbiamo apprezzato questa locazione temporanea, ci facilita la vita”, afferma Beatrice Fabretti, responsabile dell’ufficio stampa.

Ma dall’esterno tutto ciò sembra paradossale. Una struttura costata l’enorme cifra di 150 milioni di euro che non contempla spazi interni per il lavoro quotidiano. “Nel progetto iniziale gli uffici erano previsti nella palazzina D, antistante alla struttura museale, dove oggi troviamo al pian terreno il ristorante, il bookshop e la biblioteca finiti nel 2010″, ci racconta ancora la Fabretti. “I soldi, arrivati a scaglioni, sono stati utilizzati prima per finire i luoghi destinati a servizi pubblici considerati prioritari”, aggiunge Margherita Guccione, la direttrice del Maxxi-Architettura. E oggi, dopo oltre tre anni di vita del museo, si pensa agli uffici.

Nel piano superiore della palazzina D dal febbraio scorso sono in corso i lavori di ristrutturazione. Gli uffici saranno collocati proprio lì, nella parte superiore dell’ex caserma che si erge di fronte al museo, un edificio vecchio che l’irachena Zaha Hadid ha voluto mantenere all’interno dello spazio museale. La fine dei lavori è prevista a fine dicembre, per un costo totale di circa un milione di euro. “Nel momento in cui gli uffici saranno pronti, i container spariranno” aggiunge la Guccione. Tutto normale insomma. Anche se provi a controbattere che alla Tate Modern di Londra o al Pompidou di Parigiil direttore non lo trovi fuori nel piazzale antistante o all’interno dei container, la risposta è sempre la stessa: “E’ una soluzione provvisoria, in attesa degli uffici”.

Prima di questa location temporanea lo staff del museo Maxxi si appoggiava al museo d’arte moderna Andersen. La Fondazione aveva preso in prestito alcune stanze della palazzina liberty di via Stanislao Mancini. Gli spazi quest’anno servivano al ministero dei Beni Culturali ed ecco arrivare l’idea della Melandri, basata su una valutazione di costi e benefici. “E’ una decisione che le fa onore, chapeau per lei – ribadisce la zelante responsabile dell’ufficio stampa – non voleva sottrarre altri spazi al museo, ma contemporaneamente viverlo ogni giorno, questa c’è sembrata un’idea funzionale”.

All’interno del Maxxi c’è un open space dove lavora il reparto guidato dalla Guccione. In realtà una sala rubata temporaneamente alle esposizioni, sempre in attesa della fine dei lavori. “Uno spazio troppo confusionario e aperto per lavorarci tutti insieme”, secondo lo staff. “I container sono accettati perché provvisori e temporanei, e comunque se un direttore di un giornale fa una scelta ben precisa, non tutti i cronisti forse saranno d’accordo, ma si va avanti”, chiosa la direttrice artistica del Maxxi-Architettura.

Però purtroppo la sensazione di precarietà rimane, tutto troppo fluttuante, proprio come l’istallazione Yap che aleggia sopra i container. Alcuni cittadini, fruitori del museo fin dai primordi, ci tengono a dichiarare: “Il piazzale davanti al Maxxi era l’unica cosa che rendeva vivo il posto, con bambini felici e chiassosi che almeno lo vitalizzavano. Da quando ci sono i container la sorveglianza – affermano – non fa che riprendere bambini e genitori, dicendoci che non possono giocare o correre, perché disturbano il lavoro di chi sta nei container. Ma possibile – concludono – che con uno spazio così immenso, si sia potuta trovare solo una soluzione simile? Stentiamo a crederci”. Un altro residente: “L’inaugurazione è avvenuta più di tre anni fa, potevano spuntare un milione di euro dal museo e metterli subito negli uffici e non ritrovarci ora con questi ‘catafalchi’ di plastica”. 

Estetica e funzionalità, sono questi i due criteri principali con cui è stato costruito il Maxxi. Forse i container saranno funzionali, sull’estetica qualcosa da ridire permane. Per alcuni restano un pugno nell’occhio, una bizzarria inaccettabile all’interno di uno dei musei più importanti e costosi al mondo. E poi chissà, forse c’è sempre la paura che la crisi, la mancanza di fondi, progetti non portati a termine, trasformino qualcosa di provvisorio in permanente, in esteticamente (in)accettabile. Come è avvenuto per il bellissimo piazzale. Il caso, però, non è sempre così magnanimo.

di Irene Buscemi e David Perluigi

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