Finmeccanica, di cui il Ministero del Tesoro detiene il 30 per cento delle azioni, è l’ultimo podere supersite di quell’immenso latifondo (oltre la metà del sistema produttivo nazionale) che fu l’impresa partecipata dalla mano pubblica (le PPSS). Comunque, un conglomerato con ancora 70mila dipendenti, che spicca nel mediocre panorama del nanismo aziendale italiano. Per di più, operante in settori – come si suole dire – “strategici”: aerospaziale, difesa, energia, trasporti e telecomunicazioni. Ma anche una realtà senza più pace, devastata da ricorrenti catastrofi che hanno portato i suoi ultimi due presidenti a dover fare i conti con la giustizia: Pier Francesco Guarguaglini, rimosso dalla carica nel dicembre 2012 in quanto indagato dalla procura di Roma per frode fiscale e false fatturazioni, Giuseppe Orsi arrestato il 12 febbraio 2013 dai magistrati di Busto Arsizio per tangenti internazionali.

In tale marasma ha tenuto in mano il timone “l’uomo forte” Alessandro Pansa, AD con deleghe finanziarie e figlio del più noto GianPaolo, che sembra proprio aver svolto un ruolo determinante nella definizione dei nuovi assetti societari; che hanno visto l’accantonamento di Giuseppe Zampini, l’aziendalista a capo di Ansaldo Energia dato in pole position ma (si dice) sgradito al Pansa, e l’imprevedibile ascesa al supremo vertice del prefetto Gianni De Gennaro.

E qui si apre il dibattito: che ci fa un poliziotto, dunque sprovvisto di qualsivoglia titolo di competenza specifica, alla presidenza di uno dei residui gruppi industriali del Paese? Come sempre la tendenza è quella di guardare la vicenda dal buco della serratura del gossip politicante e/o scandalistico. Mentre – in effetti – tanto i corridoi romani come i retaggi di un lontano G8 (mattanze alla scuola Diaz di Genova comprese) non sembrano avere pesato minimamente. La questione può essere letta come un riposizionamento di business all’interno del Gruppo, in cui la sconfitta di Zampini significa due cose: la concentrazione sul “core” armamento, l’uscita dai settori ritenuti finanziariamente non strategici.

Se così fosse, la scelta del De Gennaro assumerebbe tutt’altro senso, in quanto l’attuale sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega ai servizi segreti è – per i propri precedenti “professionali” – il nostro connazionale meglio posizionato nelle reti internazionali della sicurezza (e della repressione). Cioè, il naturale mercato di sbocco per un player negli armamenti, quale è destinata a diventare Finmeccanica una volta tagliati gli altri rami.

Se al tempo della montilatria si diceva che Mario Monti più che il premier era l’ambasciatore italiano presso i circoli finanziari più esclusivi, De Gennaro presidente fungerebbe anche lui da ambasciatore presso ambienti altrettanto esclusivi (con l’effetto indiretto di bloccare organigrammi intenzionati a difendere la presenza del Gruppo in più settori: una strategia alternativa alla visione delle cordate vincenti).

Sempre se così fosse (e come voci interne all’azienda in riposizionamento confermerebbero), la politica ha svolto ancora una volta il ruolo del convitato di pietra, uscendone ovviamente sconfitta. In particolare la filiera industrialista del Pd, che appoggiava, seppure con minime capacità di influenza, l’ipotesi Zampini.

E ora si trova di fronte al rischio della liquidazione (o svendita “a spezzatino”) di settori fondamentali per una qualsivoglia politica industriale di respiro nazionale – quali l’energetico e la logistica informatizzata – in cui le aziende del Gruppo conservano tuttora un patrimonio di saperi e competenze a dir poco pregiato. Tanto che da molte parti si denuncia il disegno di concorrenti esteri che vorrebbero acquistare tali aziende per impadronirsi delle loro quote di mercato (e magari chiuderle).

Sicché – fermo restando il giudizio sul personaggio – sarebbe di estremo interesse se il Parlamento e le forze politiche prendessero urgentemente in esame la questione “De Gennaro presidente Finmeccanica” da un angolo visuale completamente diverso: quali sono le scelte che stanno maturando nel Gruppo controllato dal Ministero del Tesoro e quanto queste sono confacenti all’interesse nazionale; sia sotto il profilo della tutela del lavoro, sia sotto il profilo delle complessive capacità competitive di sistema. Ossia le reali questioni in cui si annida il vero scandalo dell’intera vicenda.

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