“Violenze e violenze”. Si intitola così l’ultimo post che Silvia Caramazza ha scritto sul suo blog, “Latte versato”. È datato 3 giugno, proprio il giorno prima di quel viaggio a Pavia che l’ha portata a incontrare l’ultima persona, un’amica, che l’ha vista viva. L’ultima, ad eccezione del suo assassino, ovviamente. Perché Silvia non c’è più, è stata uccisa. A trovare il suo corpo, ferito alla testa e rinchiuso dentro al freezer di un appartamento di Bologna, sono state le forze dell’ordine, che ora stanno indagando per ricostruire gli ultimi momenti di vita della ragazza, dichiarata scomparsa prima di essere trovata morta. Ma a raccontare chi era quella giovane trentanovenne cercata per settimane solo per essere rinvenuta senza vita in un sacco della spazzatura nascosto in una casa di viale Aldini, è Silvia stessa. E’ lei che, attraverso le pagine del suo diario online confida i suoi timori, le sue emozioni, le sue speranze. E lei a raccontare che aveva paura, e che qualcosa, nella sua vita, era cambiato. “C’è una linea sottile tra il sospetto e la violenza, psicologica intendo – recita quell’ultimo post, un susseguirsi di emozioni che forse nemmeno le persone a lei più vicine conoscevano – Va da sé che rompere telefoni cellulari o computer faccia parte di una violenza psicologica ben definita anche penalmente. Ma anche tenere sotto pressione una persona facendole credere di essere controllata non è un’azione che può passare così, senza colpo ferire. Dire a una persona ‘ti controllo il telefono e le mail tramite un investigatore’ è una pressione che a lungo andare logora e sfibra chiunque”.

E’ una storia colma di dolore quella di Silvia, forse uccisa nel sonno, mentre riposava nell’appartamento che, secondo i vicini, condivideva con il compagno, Giulio Caria, 34 anni, originario di Berchidda. Fermato in Sardegna dai Carabinieri del nucleo operativo di Olbia sulla base di un provvedimento di fermo della Procura di Bologna perché, secondo gli inquirenti, qualcosa nelle sue dichiarazioni conseguenti alla denuncia di scomparsa di Silvia non tornava. Il gip di Sassari ha convalidato il fermo e ha disposto la custodia cautelare in carcere.

Delle sue paure, in parte, Silvia avrebbe parlato all’amica incontrata a Pavia. Ma, salita sul treno per tornare a Bologna, quel 3 giugno, di lei non si è saputo più nulla. Qualche sms che per gli inquirenti risulta “strano”, difficilmente attribuibile a Silvia, l’ultimo, datato 14 giugno, la descrive in vacanza a Mikonos con il fidanzato. Nient’altro. Infatti è l’assenza di notizie certe che induce le persone che le volevano bene a rivolgersi alla polizia: il 19 giugno, due amiche ne denunciano la scomparsa. Gli agenti chiamano al telefono Caria, che dice: “Siamo a Catania però ora non ve la posso passare”. All’indirizzo indicato dal compagno di Silvia, i due non ci sono. Allora iniziano le indagini e per diversi giorni di Silvia non si sa nulla. Il compagno viene interrogato dagli investigatori, di nuovo le sue parole non tornano. Infine il 27 giugno la polizia entra nell’appartamento di viale Aldini segando le sbarre alle finestre, e lei è lì. Morta.

Ora spetterà agli inquirenti capire se quelle parole scritte da Silvia abbiano un legame con il suo assassinio. Per la Procura l’ipotesi più probabile è che Silvia sia stata picchiata per giorni, settimane prima di quell’ultima aggressione, quella che ha causato la sua morte. Ma a pesare come macigni non saranno più solo le tracce che i medici legali troveranno su di lei, analizzando il suo corpo. “C’è un altro grado di violenza, quella velatamente fisica. Se dico che non ho voglia di rapporti e mi tocchi, non una ma più volte ripetutamente, oltre a darmi un fastidiosissimo senso di repulsione, penso rientri tra le molestie sessuali. Poi mi dici che vuoi essere chiamato amore…”.

E di quel dolore è proprio lei, la vittima, a parlare. “Se solo Dio volesse, ma anche un dio va bene, il fato supponiamo, un accadimento, qualunque cosa possa muovere una virgola e metterla al posto di quel punto sarei vivamente felice. Se questo mio ‘qualcosa’ esiste, che per qualche ora mi renda felice. Questo chiedo. Non di più”. Scriveva poesie, sul suo blog, Silvia. Parlava d’amore, una “parola abusata”, di paura, “tutto questo la spaventava moltissimo, tanto da ricacciare in gola ogni minima reazione alla sua vita attuale”, e di stanchezza, “alla fine, avanti alla grandiosità degli intenti del principio, questa stanchezza che ci si porta addosso come un abito di taglia sbagliata che si incolla alle carni pizzicando e stringendo”.

Raccontava lucidamente, senza mai fare nomi, una situazione che, ora dopo ora, assume sempre più i contorni di un caso di stalking. “Non sentirsi sicuri al telefono, sapere che un ex potrebbe in un futuro incerto scrivere una mail mette in allerta, anche se non si ha nulla da nascondere. Trovare telecamere in casa, messe ‘per controllare se qualcuno entra’, potrebbe anche essere lecito, ma se sono in casa mia e nessuno mi ha mai avvertito della loro esistenza la trovo un’intrusione altrettanto fastidiosa rispetto alle precedenti. Andare a cena fuori e sentirsi dire ‘ti ho fatta seguire per sapere se quel maniaco del tuo amico ti seguiva’ mi pare un arzigogolio inutile. Mi hai fatta seguire? Ma siam pazzi”.

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