Senza finanziamenti, solo con lavoro fatto online, a furia di brainstorming effettuati da casa alle ore più strane, da donne che cercano di fare un mestiere spesso poco (o nulla) pagato e non sempre gratificante, ma che è centrale nella formazione dell’opinione pubblica e quindi anche degli stereotipi di genere: è così che è nato lo spot Io me ne curo, e tu? 

In meno di un minuto alcune professioniste che fanno parte della rete nazionale delle giornaliste unite libere e autonome “Giulia”, in rappresentanza delle centinaia che hanno creato il network, dicono quello che in una informazione corretta, giusta e civile di un paese civile dovrebbe essere ovvio, ma non lo è: che si fa violenza un’altra volta se si imposta un articolo o un pezzo tv usando espressioni come ‘delitto passionale’ , o si sottolinea che la donna era vestita in modo provocante, o se si insinua che, se è morta, se è stata aggredita o violentata, “in fondo se l’è cercata”.

Le parole, scandiscono le giornaliste di “Giulia”, non sono neutre. L’informazione consapevole comincia da chi la fa. Io me ne curo e tu? Chiedono alle altre e agli altri che stanno nelle redazioni.

Per la prima volta nella storia del giornalismo italiano delle persone addette ai lavori non si rivolgono alla società in modo generico, ma in specifico alle colleghe e colleghi, e lo fanno pubblicamente, in una chiamata collettiva per agire con più attenzione verso gli stereotipi sessisti.

Un atto interessante e importante che sottolinea la necessità di assumersi la responsabilità di ciò che si scrive, perché fare un lavoro che attiene all’informazione non è fare un lavoro di poco conto e peso, per le ricadute che quello che si scrive, e dice, hanno sull’intera comunità.

Quando avevo 25 anni e feci il mio primo e unico viaggio negli Stati Uniti mi colpì un grande manifesto che campeggiava a New York in cima ad un palazzo: era il volto maturo e simpatico di una nota presentatrice di una rete tv, accanto alla quale c’era una scritta: “If it concern you it concern us”Quello che ti riguarda ci riguarda.

E’ proprio così: il mestiere di raccontare i fatti e la realtà è un compito carico di responsabilità, perché informa quello che l’opinione pubblica apprende anche attraverso ciò che legge e ascolta.

E come si diceva negli anni ’70, le parole sono pietre: quelle disattente, o peggio malevoli e intenzionalmente adoperate per raccontare la violenza sulle donne sono un doppio carico contro le vittime, e contro le donne. Tutte. E se a dirlo sono proprio le lavoratrici dell’informazione c’è di che interrogarsi, per cambiare velocemente rotta.

La Repubblica tradita

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