Tra i candidati per gli esami di maturità abbiamo, per la prima volta, uno studente recluso nella IV sezione, quella dei collaboratori di giustizia: sono i cosiddetti pentiti, indicati spregiativamente dagli altri detenuti come “cantanti”, che “se la cantano” guadagnandosi il marchio di “infamità”.

Un inciso: una delle questioni  più insormontabili che deve affrontare quotidianamente chi lavora in carcere è la scarsa tolleranza che vige tra detenuti di diverse specie, per reati di diversa natura; e tanti approfondimenti abbiamo avuto con i miei studenti interrogandoci sul caso estremo del comportamento della Norvegia di fronte al pluriomicida Brevnik.

Nella IV sezione si entra in un mondo a parte, all’interno del mondo a sua volta appartato del carcere, con proprie regole, una propria direzione, agenti speciali. È lì che avvengono quegli incontri particolari tra detenuti e magistrati di cui si racconta sui verbali e poi nei giornali, giocati su un delicato equilibrio tra detto e non detto, vero e non vero, do ut des; scambi dialettici che mettono alla prova individui nei fatti contrapposti ma dotati entrambi, ognuno con il suo background, ognuno con il suo destino, di intelligenze complesse, spesso molto raffinate.

Il nostro studente, un ragazzotto muscoloso e di bell’aspetto, si presenta in maniera estremamente cordiale e rispettosa. L’ho seguito nel corso dell’anno, lasciandogli al termine delle lezioni fotocopie degli argomenti che man mano svolgevo nella mia classe V: concetto di Stato, evoluzione storica delle forme di Stato e forme di governo nei diversi contesti internazionali, approfondimento sul Parlamento, governo, Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Magistratura e funzione giurisdizionale.

Il ragazzo divorava ogni pagina e chiedeva altri spunti; nelle occasioni in cui potevamo stabilire un minimo di confronto, arricchiva i discorsi con considerazioni personali e riflessioni sul proprio vissuto. Un’infanzia “difficile”, il padre tossicodipendente che si bucava davanti a lui e il nonno che, con lui appena decenne, veniva freddato con un colpo di pistola davanti ai suoi occhi. È la periferia di Napoli, dove i bambini crescono immersi in una cultura criminale senza alternative. Nelle sue parole: “è come se fino a vent’anni ti facessero vivere con le mani legate: tu ti abitui a questo e lo consideri normale; poi improvvisamente scopri che quelle mani possono essere libere e si può vivere diversamente”.

È questo l’effetto che avrebbe avuto su lui la scuola, lo studio, la cultura: una liberazione, la consapevolezza che esistono altri mondi, la conoscenza dello Stato e, soprattutto, la possibilità di scegliere. Ora sostiene che i suoi pensieri, a parte la famiglia cui tiene moltissimo, sono rivolti verso questa nuova passione per le discipline giuridiche.

Al di là di ovvi giochi delle parti, ho motivo di credere che ci dev’essere del vero in queste considerazioni. Uno dei banchi di prova sarà l’iscrizione alla facoltà di Giurisprudenza, dovuta sia ai miei modesti suggerimenti ma ancor più alla necessità di elaborare meglio il proprio passato e avere maggiori strumenti per gestire la propria condizione.

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