La strada per la riconciliazione in Afghanistan passa, forse, per Doha. E’ nella capitale qatariota che i talebani hanno aperto il loro ufficio di rappresentanza dopo un anno di trattative ed nel regno dell’emiro al Thani che i turbanti neri inizieranno nei prossimi giorni colloqui diretti con i rappresentati statunitensi, cui dovrebbero far seguito quelli con una delegazione inviata dal governo afgano di Hamid Karzai. Gli stessi emissari che hanno a più riprese respinto nell’addittare il presidente afgano come un pupazzo di Washington. Ad annunciare il cambio di rotta sono stati alti funzionari delle Casa Bianca. Sul tavolo dei colloqui dei prossimi giorni ci sarà il tema del rilascio dei prigionieri. Secondo Washington il messaggio di apertura dei talebani ha almeno due punti da tenere in considerazione. Sono il passaggio in cui dicono che l’Afghanistan non sarà la base da cui far partire minacce verso altri Paesi e l’obiettivo di giungere a una soluzione per un conflitto che dura ormai da 12 anni. Il taglio dei rapporti con al Qaeda diventa invece uno dei risultati da raggiungere e non più la precondizione posta dagli Usa per instaurare il dialogo.

Di suo Karzai ha voluto annunciare l’invio in Qatar di una delegazione dell’Alto consiglio per la pace, l’organismo istituito nel 2010 per parlare con i gruppi armati. Parole pronunciate nel corso della cerimonia di trasferimento delle responsabilità della sicurezza del Paese dalla Nato agli afgani stessi. E’ la quinta fase della transizione che il prossimo anno porterà al ritiro delle truppe internazionali. I soldati Nato avranno da domani soltanto funzioni di sostegno, mentre la sicurezza sarà in mano ai 350mila uomini delle forze afgane. A rompere il clima di entusiasmo è stato prima della cerimonia un attacco suicida nella parte occidentale della città, che ha fatto almeno tre morti e ha provocato lievi ferite al vero bersaglio: il leader politico Hazara, Haji Mohamamd Mohaqiq. Per capire se in Afghanistan si una svolta bisognerà però almeno attendere che i colloqui avvengano e si possa intravedere un qualche risultato.

Appena una settimana fa, l’offensiva di primavera degli “studenti coranici” aveva fatto il colpaccio con l’assalto all’aeroporto di Kabul, uno dei luoghi più protetti della città. Quattro ore di scontri che hanno lasciato sul terreno 7 guerriglieri. Il giorno dopo, con minore risonanza sul piano mediatico l’esplosione di un’autobomba nel parcheggio della Corte suprema strappava la vita ad almeno 17 impiegati, in un attentato che non aveva alcun bersaglio militare o politico, ma che tra le vittime ha fatto soltanto comuni cittadini. Una bomba che fa presagire un cambio di strategia per i turbanti neri o almeno per una parte della galassia talebana. A Roma, mentre i siti d’informazione internazionale davano conto del trasferimento di consegne alle truppe di Kabul, una delegazione di rappresentati della società civile afgana incontrava i parlamentari italiani per scongiurare il rischio che una volta conclusa la missione Isaf l’Afghanistan sia abbandonato a sé stesso o lasciato in balia delle mire dei Paesi vicini, Iran e Pakistan in testa. La delegazione è nella capitale nell’ambito di un progetto promosso dalla rete Afgana e da un consorzio di Ong, con capofila Arcs. Sono stari ricevuti da una ventina di parlamentari, tutti a dire il vero provenienti da soltanto tre partiti – Pd, Sel e Movimento Cinque Stelle – mentre con il rammarico degli organizzatori era assente all’incontro una parte del mondo politico.

Il timore degli afgani, come sottolineato da Ahmad Joyenda, direttore di Afghanistan Research and Evaluation Unit (Areu), e Homa Alizoy, presidentessa del tribunale minorile di Kabul ed esponente della rete Afghan Women’s Network, è che il Paese possa fare passi indietro rispetto ai progressi nel rispetto dei diritti umani e delle donne che in 12 anni di conflitto è comunque riuscito a fare. Lo spettro è che si ripeta quanto accaduto dopo il ritiro delle truppe sovietiche ormai oltre vent’anni fa, quando l’occidente lasciò gli afgani in mano a signori della guerra e poi al regime talebano. Gli internazionali in realtà non se ne andranno del tutto. La missione di combattimento Isaf lascierà il passo a Resolute Support come emerso dal vertice interministeriale Nato dello scorso 4 e 5 giugno a Bruxelles. L’Italia e la Germania saranno della partita responsabili delle responsabili delle aree Nord e Ovest del Paese.

Intanto sia la deputata democratica Federica Mogherini sia Giulio Marcon di Sel hanno messo in evidenza la necessità di spostare la priorità dalle risorse dall’intervento militare alla cooperazione e al civile. In questa direzione va a esempio la campagna 30 per cento lanciata rete Afgana, ossia la proposta di destinare alla ricostruzione del Paese trenta centesimi per ogni euro risparmiato con il ritiro delle truppe. L’altra è il sostegno alla costruzione a Kabul di una Casa della società civile, luogo sia fisico sia espressione di realtà organizzate che vogliono contribuire a far uscire il Paese dal conflitto.

di Andrea Pira

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