“Ciò che può accadermi è accettabile, se porterà a rivelare, anche solo per un istante, l’intreccio di leggi segrete e poteri esecutivi che governano il mondo che amo”. Lo ha detto Edward Snowden, la talpa del datagate, nell’intervista affidata al Guardian, nella speranza che il suo gesto possa smuovere le coscienze e condurre a una prima revisione delle politiche di sicurezza USA. In realtà, nonostante diverse voci della politica si stiano in questo momento levando per chiedere quella revisione, è improbabile che nel breve periodo qualcosa possa davvero cambiare. Il radicamento del sistema dei controlli, gli interessi economici che lo sostengono, le oscillazioni della politica e una sostanziale apatia dell’opinione pubblica USA fanno pensare che la National Security Agency e le altre centrali di controllo non perderanno le loro prerogative.

Tra le voci di chi in queste ore ha messo in discussione le politiche sul terrorismo USA c’è, piuttosto curiosamente, quella di Barack Obama. “Se il dibattito dovesse condurre a costruire un certo consenso sui cambiamenti del Patriot Act, Obama li considererebbe seriamente – ha detto il portavoce Jay Carney – il presidente è stato molto chiaro sul fatto che ritiene questa discussione salutare”. Per Obama, del resto, è un momento difficilissimo. Le rivelazioni, oltre a indignare l’opinione pubblica internazionale, gli hanno alienato buona parte del mondo progressista interno. Gli attacchi hanno utilizzato una delle piattaforme progressiste più conosciute e lette al mondo, il sito del Guardian. E quasi nessuno tra i suoi elettori ha potuto fare a meno di ricordare che Obama, prima del 2008, attaccò violentemente il programma di intercettazioni deciso da George W. Bush e si oppose alla concessione dell’immunità giudiziaria per quelle società telefoniche che avevano partecipato al programma. In queste ore, alla Casa Bianca e tra i servizi USA, è forte il sospetto che lo scandalo sia alimentato dalla Cina, in un momento in cui si stanno ridisegnando gli equilibri tra Washington e Pechino e quest’ultima è sotto accusa per la questione dei cyber-attacchi a istituzioni, aziende e media americani. Ciò non toglie, a prescindere da chi nutre e approfitta dello scandalo, che l’amministrazione USA sia in serio imbarazzo, costretta a difendersi e a giustificarsi – la settimana prossima Obama incontrerà la cancelliera tedesca Angela Merkel, che prevedibilmente gli chiederà garanzie sui controlli ai danni di cittadini europei.

Quanto al Congresso, gli appelli a cambiare corso e limitare i poteri delle agenzie di spionaggio arrivano, piuttosto ovviamente, dai settori più liberal del partito democratico e dalle frange libertarian di quello repubblicano. Due deputati del Michigan, il repubblicano Justin Amash e il democratico John Conveyers Jr., stanno mettendo a punto una proposta di legge che renderebbe molto più difficile la sorveglianza delle linee telefoniche, oltre a esigere la diffusione di gran parte degli ordini della Foreign Intelligence Surveillance Court. Due senatori democratici, Ron Wyden e Mark Udall, stanno da parte loro riflettendo su come modificare il “Patriot Act”. A loro giudizio, infatti, la versione della legge anti-terrorismo votata originariamente dal Congresso è molto diversa da quella che oggi l’amministrazione Obama sta applicando, soprattutto nella “section 215” relativa a documenti riservati delle società private (proprio l’obbligo per Verizon, AT&T, Sprint, Google e Facebook di consegnare i propri tabulati ha dato il via allo scandalo). Molto duro anche il senatore vicino ai gruppi libertarian Rand Paul, secondo cui “se la raccolta e la sorveglianza delle linee telefoniche degli americani – così generale e senza discriminazione – sono ora considerati legittimi strumenti di sicurezza, non esiste letteralmente alcuna protezione di nessun tipo per i nostri concittadini”.

Ben più strana appare la voce di altri – soprattutto repubblicani – che hanno nel passato sostenuto in modo acritico le politiche anti-terrorismo di Bush e che oggi criticano quelle stesse politiche, soprattutto in funzione anti-Obama. “Questi sono atti che io mi aspetterei dalla Cina, e non dagli Stati Uniti”, ha detto il governatore del Texas, Rick Perry, che ha attaccato l’amministrazione per “il fondamentale uso strumentale dei massicci poteri di governo”. Molto critico anche Ted Cruz, “favorito” del Tea Party, secondo cui Obama e i suoi “stanno mettendo a punto ciò che appare un sistema di sorveglianza intrusivo e senza precedenti nelle vite private degli americani… Alla luce dei risultati passati di questa amministrazione, come pensano di poter essere ritenuti affidabili?” Il datagate sta rendendo anche piuttosto difficili i rapporti tra deputati e senatori e quei loro colleghi che in questi anni hanno fatto parte dell’Intelligence Committee e che sono stati regolarmente informati sulle attività della NSA e della Foreign Intelligence Surveillance Court. “Non c’è mai stato niente di nefasto in quanto abbiamo visto e considerato”, ha detto uno dei membri dell’Intelligence Committee, il democratico Jim Langevin.

Quanto l’attuale bailamme politico e mediatico possa davvero portare a un allentamento delle misure limitatrici del diritto alla privacy, e delle libertà in genere, è comunque molto in dubbio. Un sondaggio “Washington Post-Pew Research Center”, successivo allo scoppio dello scandalo, mostra che il 56% degli intervistati ritiene accettabile che la National Security Agency si avvalga degli ordini di una corte segreta per controllare i telefoni degli americani; solo il 41% vi si oppone. Per molti deputati e senatori, inoltre, una revisione della legge anti-terrorismo sarebbe una battaglia lunga, faticosa e sicuramente molto poco produttiva a fini elettorali. Senza contare che molti tra questi dovrebbero rinnegare l’appoggio passato a misure che oggi definiscono “liberticide”: la legislazione relativa a intercettazioni e controlli è stata infatti rinnovata per altri 5 anni a fine 2012, con un solido appoggio bipartisan.

Di più. Obama può contare, alla guida dell’Intelligence Committee del Senato, su un alleato fedele e inflessibile coma la democratica della California Dianne Feinstein, che si è opposta in tutti i modi a una revisione del “Patriot Act”, paventando la possibilità di un altro “11 settembre”. “Qualsiasi rivelazione sul programma di intercettazioni distruggerebbe il programma”, ha detto la Feinstein. Ancora ieri, in una dichiarazione televisiva, la senatrice ha spiegato di essere passata per New York e di aver “pensato a tutti quei corpi che saltavano fuori da quell’edificio… Parte del nostro obbligo è tenere al sicuro l’America”.

Oltre le dichiarazioni di principio, e alcune flebili rotture dell’unanimità, è dunque difficile che qualcosa cambi e che le potentissime agenzie di spionaggio possano perdere parte delle loro prerogative. Resta il paradosso di un presidente, che ritiene “salutare” una discussione sui sistemi di sicurezza USA, e che al tempo stesso ha appena ordinato al suo Dipartimento di Giustizia di emettere un ordine di cattura per Edward Snowden, il responsabile di quella “salutare discussione”.

 

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