Oggetti di autentico pregio e ciarpame d’autore, sporadici lampi di bellezza ma anche non poca dozzinale paccottiglia. Condite il tutto con robuste dosi di entusiasmo, ansia di novità, euforia di saltellare da un vernissage all’altro malgrado i rigori di una primavera più latitante che stentata, ed otterrete una Biennale veneziana doc.

Per intenderci, tra eventi ufficiali e collaterali, partecipazioni nazionali dislocate in ogni più remoto angolo del centro storico etc., uno di quei classici “tour de force” che l’impagabile Gillo Dorfles scherzosamente reputa responsabile, ogni volta, di una sua cospicua perdita di chili. Né certamente stupisce che, archiviata l’epoca dei Giustiniani, dei Marcello o dei Volpi di Misurata, i mecenati della Venezia del terzo millennio rispondano ai nomi di François Pinault, proprietario dei musei di Palazzo Grassi e Punta della Dogana, Miuccia Prada, con l’omonima fondazione a Palazzo Corner della Regina, o Louis Vuitton, dotatosi di un nuovo spazio culturale all’ultimo piano del nuovo palazzo-boutique della Frezzeria: colossi della moda planetaria che non hanno perso occasione di inaugurare, nelle rispettive sedi, altrettante mostre di arte contemporanea, da “Prima Materia”, a cura di Caroline Bourgeois e Michael Govan, alla riproposizione di “When attitudes become form” voluta da Germano Celant in dialogo con Thomas Demand e Rem Koolhaas.

Eppure una Biennale, quella del 2013, ossequiosa di tutti i suoi puntuali riti, ma in verità finalmente animata, una volta tanto, da un insperato salto di qualità tecnica. Merito soprattutto dell’esposizione principale, ovvero di quel “Palazzo Enciclopedico” in nome del quale si è materializzata, tra i Giardini e l’Arsenale, l’eterna utopia della conoscenza umana universale e totalizzante, ovvero la vertigine del catalogare, raggruppare, inventariare e dunque dominare il mondo circostante e, al tempo stesso, il caos dei propri pensieri. Non è forse questo il senso intimo ed originario, nonché etimologico, della parola “arte”, che si ipotizza provenga da una particella indoeuropea (“are”) indicante appunto l’atto dell’ordinare? Più di qualcuno, nel mare magnum della critica d’arte e della psicologia cognitiva applicata all’arte, ha già parlato di “impulso tassofilo”, cioè di una sorta di insopprimibile istinto che ci indurrebbe dalla notte dei tempi a classificare e sistemare gli oggetti del mondo secondo criteri prestabiliti.

Eppure Massimiliano Gioni, il più giovane curatore della storia della Biennale, si è sforzato di fare di meglio, cercando di condensare questa ossessione conoscitiva in un’opera e in un’immagine precisa, ovvero nel modellino in scala 1:400 con cui nel 1950 Marino Auriti, meccanico di origine abruzzese emigrato a Philadelphia e artista dilettante, progettava di costruire un mastodontico museo -mai realizzato- dell’intera conoscenza umana dalle origini al presente: il cosiddetto “Palazzo Enciclopedico“, per l’appunto. Di qui, catalogate secondo la progressione tipica delle Wunderkammer rinascimentali, ovvero dal naturale all’artificiale, dal geologico-floreale al virtuale-digitale, una ridda di immagini, cioè di rappresentazioni artistiche del mondo esterno, ha vestito gli spazi di un Arsenale insolitamente “museificato” dall’intervento architettonico di Annabelle Selldorf, fungendo da perfetto pendant alle immagini cosiddette “interiori” (ossessioni, fantasie, superstizioni, occultismi) ospitate nell’altra metà dell’esposizione, quella dei Giardini, opportunamente introdotta dal “Libro Rosso” di Jung.

Una mostra che dunque ha declinato il contemporaneo in una suggestiva chiave genealogica, ovvero inglobando tra gli autori viventi anche artisti ed intellettuali defunti (in qualche caso risalenti addirittura alla seconda metà dell’Ottocento) capaci di incidere in termini cruciali sull’iconografia dei nostri tempi: primi tra tutti André Bréton e i Surrealisti, ma anche Rudolf Steiner o Pier Paolo Pasolini.

Nitidi e ben decifrabili anche tutti i vari altri numerosi sotto-temi che percorrono l’esposizione, come il rapporto fra arte e psicopatologia (Arthur Bispo do Rosario, Anna Zemankova, Shinichi Sawada) o quello tra arte e realtà carceraria (Rossella Biscotti, Eva Kotatkova), il tema del ritratto fotografico come travestimento (Cindy Sherman, Eugene Von Bruenchenhein, Norbert Ghisoland, Linda Fregni Nagler) o la questione classicamente freudiana dell’Unheimlichkeit incarnata dalle sculture iperrealistiche e perturbanti di Douane Hanson o John De Andrea. E se ai posteri compete, per definizione, l’ardua sentenza sull’esito dell’impresa, è per il momento doveroso rilevare almeno un piccolo ma vistoso miracolo, nell’Italietta delle nomine lottizzate e delle mafie castali, e cioè –audite audite– la presenza di un curatore capace e competente al timone della nostra principale esposizione internazionale di arte contemporanea.

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