Inutile sperare in un’autocritica da parte dei liberisti/mercatisti, fanatici propagandisti delle privatizzazioni mirabolanti, alla luce di quanto emerge dalla vicenda dell’Ilva di Taranto. Ossia quei signori che – veri bolscevichi venuti da Chicago – hanno occupato in massa le pagine del commento economico sulle principali testate giornalistiche italiane spiegandoci con insuperabile prosopopea che da noi le cose andavano male perché c’erano troppi controlli e non si lasciava totale mano libera alla funzione salvifica del “mercato autoregolantesi”: gli Alberto Bisin, gli Alessandro De Nicola, i Michele Boldrin, i Franco Gavazzi & Alberto Alesina, i Luigi Zingales (in questo caso, quelli che si facevano belli dello smascheramento strombazzato, tipo rogo di Torquemada, del sodale di fino a un attimo prima: il patetico Oscar Giannino).

Intanto ci siamo resi conto di quanto stringenti e soffocanti siano i controlli in questo Paese, alla luce della miriade di morti per assenza di controlli; ad esempio in materia di produzione dell’amianto, non solo di inquinamento siderurgico. Ma anche sotto l’aspetto dell’economicità emergono valutazioni stridenti con i toni del rosa con cui il commento mainstream ci ha dipinto le privatizzazioni. Difatti un economista di ben altra caratura rispetto ai succitati “fenomeni” – quale Marcello De Cecco, già docente della Normale di Pisa – da oltre dieci anni faceva notare che i privati subentrati alle Partecipazioni Statali nel business siderurgico – nel caso la famiglia Riva – aumentavano i profitti abbattendo gli investimenti e la qualità del personale; grazie “a una decisa riduzione del livello di sofisticazione delle produzioni dell’acciaieria di Taranto”.

Tradotto: orientandosi verso prodotti tipici dei paesi nuovi arrivati nella produzione siderurgica, realizzati con manodopera a bassa specializzazione e violando leggi e regolamenti europei in materia ambientale, inquinamento in primo luogo. Tanto che ormai si è creata la situazione a cui siamo impiccati, per cui non c’è via d’uscita dall’alternativa occupazione a prezzo della salute, oppure salute al costo della disoccupazione.

In generale – comunque – una strategia adottata da buona parte delle imprese nazionali, inabili a competere con la concorrenza avanzata, tipo tedesca o americana, e quindi orientate a posizionarsi dalle parti di Timisoara o del Far East. Tornando al tema privatizzazioni, il “caso Ilva” è solo il più macroscopico esempio di quella che in questi anni è stata la svendita dell’argenteria dello Stato. Dalla rete autostradale alle infrastrutture logistiche, alla telefonia: un affollarsi di belve attorno alla carcassa da sbranare del patrimonio pubblico.

Cosa ci sia di efficiente/efficace in tutto questo, a parte i vantaggi personali (accademici e non) dei banditori liberisti/mercatisti e dei loro assistiti, resta totalmente da spiegare. Forse è semplicemente l’ennesima arcaicità emersa nella cultura politica di un Paese ancorato all’alternativa secca tra Stato e Mercato, pubblico e privato, quando il problema non è statalizzare e/o privatizzare; piuttosto è ragionare in termini di interesse collettivo e beni pubblici, promossi attraverso politiche di indirizzo sottoposte a controllo democratico. In America lo chiamano “reinventing government”; tanto per segnalarlo agli americanisti da strapazzo, intenti a propinarci lezioni che altrove sono state da tempo accantonate.

 

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