Cosa c’entra Martin Lutero con Twitter? Parecchio. Quando il monaco tedesco pubblicò la sua traduzione della bibbia, il Vaticano non la prese bene. E c’è da capirli. Rendere fruibile al Popolo (il maiuscolo è voluto) i testi sacri senza l’intermediazione della chiesa era un gesto rivoluzionario che metteva in crisi tutto l’apparato ecclesiastico e, a cascata, la struttura della società. Twitter, oggi, ha la stessa funzione. Attraverso il social network, le notizie circolano senza l’intermediazione dei media ‘ufficiali’, quelli che nel ventunesimo secolo sono (quasi tutti) controllati, monitorati, guidati, gestiti, organizzati, lottizzati, occupati, censurati e indirizzati da governi e lobby finanziarie. Non stupisce quindi che il primo ministro turco Erdogan si scagli contro Twitter, o che il governo turco arresti 24 persone accusandole di aver “incitato ai disordini e fatto propaganda” via Twitter. La stessa reazione dei principi tedeschi fedeli al papato quando i contadini tedeschi si ribellarono in seguito alla diffusione delle idee promosse da Lutero.

Paradigmatico anche il tema del contendere. Nella Germania rinascimentale le rivendicazioni avevano come oggetto, tra le altre cose, “la restituzione delle terre comuni, dei corsi d’acqua e dei boschi alle comunità”. Non solo: i contadini rivoltosi chiedevano anche la “riappropriazione dei pascoli e dei campi di uso comune da parte delle comunità”. La protesta di #occupygezi è partita dalla richiesta dello stop alla distruzione del parco (pubblico) di Gezi, che il governo vuole trasformare in un centro commerciale. Certo, in ballo c’è molto di più, ma il parallelo non può passare inosservato. Ma torniamo a Twitter.

Il febbraio scorso, Marina Petrillo nella sua trasmissione Alaska (e relativo blog) su Radio Popolare ha sottolineato la diffusione di Twitter in Turchia. Per avere una conferma della popolarità del social network nel paese di Erdogan è sufficiente fare un salto sull’ipnotico tweetping.net, in cui vengono evidenziate su una mappa le concentrazioni in tempo reale dei tweet postati. Istanbul è rappresentata da una stella luminosa con intensità pari a New York, Parigi o Londra. Insomma: un veicolo per la circolazione di informazioni che surclassa qualsiasi telegiornale o quotidiano. Un peso massimo che stronca sul nascere qualsiasi tentativo di addomesticare l’opinione pubblica attraverso i tradizionali sistemi di controllo, e che è impossibile battere sul piano della concorrenza ‘leale’. Ecco quindi che si passa alla criminalizzazione del mezzo, che per Recep Tayyip Erdogan sarebbe una ‘cancrena della società’.

L’exploit del governo turco, pronto a mettere agli arresti comuni cittadini rei di aver usato Twitter per esprimere la loro opinione, è un precedente che faremmo bene a tenere a mente. In primis perché si spinge un passo più in là di quanto ipotizzato (auspicato?) da governi più ‘democratici’ come il Regno Unito, dove il premier Cameron, nell’agosto del 2011, aveva ipotizzato misure di controllo per l’accesso a Twitter e Facebook per fermare le proteste degli studenti inglesi. Ma anche in Italia il livello di allerta non può essere abbassato, visto che le leggi “ammazza Internet” fanno capolino in Parlamento con una frequenza  preoccupante. Nel dibattito di casa nostra, nel mirino non finiscono i social network, ma blog e siti amatoriali. Cambia poco, però. Resta da vedere se l’opinione pubblica (cioè noi) sarà in grado di capire la portata di questa partita.

Quasi 500 anni fa, migliaia di persone l’hanno capita. E non avevano nemmeno Twitter. 

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