Sulla rete sta circolando un breve filmato che arriva da Istanbul, l’antica Bisanzio. Ci mostra i giovani che, in piazza Taksim, protestano contro il governo turco e cantano, nella loro lingua, una canzone italiana. Una canzone, Bella Ciao, che è stata colonna sonora della guerra di liberazione. Una canzone che, in molti nel nostro Paese, considerano poco più di un folkloristico residuo, un avanzo retorico di una stagione  ideologica da cancellare e seppellire sotto la spinta del nuovo, del moderno, della nuova politica che supera il concetto arcaico di destra e sinistra, di fascismo e antifascismo. Tutto in nome della politica nuova, post moderna, attenta agli scontrini e immune dalle idee.

Ecco, quei giovani di piazza Taksim forse ci stanno dicendo qualcosa. Ci stanno dicendo che le idee, le nostre idee, quelle sulle quali è stata scritta la nostra Costituzione sono ancora idee per le quali ragazzi di vent’anni possono battersi, possono rischiare anche di morire, come purtroppo è avvenuto proprio in Turchia, dove uno di quei ragazzi è in coma irreversibile.

Cosa dicono i versi di quella canzone? Ci siamo scandalizzati a  lungo in questo Paese perché i calciatori e i ragazzini delle nostre scuole non conoscevano le parole di una marcetta retorica che, per varie casualità, è finita per diventare inno nazionale. Bene, la canzone che i giovani di piazza Taksim hanno trovato talmente bella, talmente capace di rappresentarli, da tradurla in turco, la conoscono in pochi e invece dovrebbero insegnarla a scuola come i versi meravigliosi di Leopardi o Montale. Quella canzone è basata su una sola parola e quella parola è libertà.

“Bella Ciao” parla dell’insopportabilità dell’oppressione; quel verso “…oh partigiano portami via, che mi sento di morir“, contiene in se mille pagine, dicendoci l’impossibilità di sopravvivenza, se ci si trova privati della libertà. Un dolore fisico, che spegne la vita.

Per questo quei ragazzi l’hanno scelta e la cantano con una partecipazione profonda.

Fa specie che qualcuno nel Paese dove quella canzone è stata scritta, la si consideri una canzone da tenere quasi al bando perché sarebbe elemento di divisione. In realtà lo è, ma è una divisione che separa le due anime di questo Paese: un’anima nobile e un’anima infame. Questo è il Paese che ha inventato il fascismo, lo ha poi esportato con successo e gli ha garantito consenso di massa per un ventennio; ma che ha anche avuto dentro di se la forza e la dignità per sconfiggerlo, ma non del tutto. Il fascismo, la sua cultura, la volontà di delegare ad uno le sorti di tutti è viva, pervade ancora questo Paese e questa cultura, negli ultimi due decenni, è diventata in larga misura egemone. Lo è diventata per la sciatteria e la pigrizia, che si è tentato di mascherare riproponendo magari triti rituali, di una sinistra che non ha saputo difendere i propri valori, quei valori che stanno in quella Carta che si cerca ogni giorno di fare a pezzi.

Il sentirsi sconfitti da chi era già stato sconfitto dalla Storia, da modelli sociali ed economici, come il liberismo, che non hanno mai funzionato al pari di come non ha funzionato il cosiddetto socialismo reale. Una sinistra malata di conformismo, di trasformismo, priva di fantasia, piegata sulle idee e suoi modelli degli altri, ha portato alla costruzioni di modelli di rappresentanza politica ibridi, incapaci di avere punti di riferimento. Si è tolta di mezzo l’ideologia, ma si sono gettate via anche le idee. Quelle idee e quei valori che vengono cantate oggi da quei ragazzi sulla collina che domina Bisanzio.  

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