Nella storia delle idee vi sono due tipologie del modo di essere artista, la prima contrassegnata da un talento spiccatissimo e naturale che non avverte l’esigenza di giustificarsi sul piano teorico, la seconda, più mediata, che, invece, ricerca la propria legittimità in un determinato codice estetico-speculativo, scegliendo un punto di riferimento estraneo alla pura e spontanea creatività. Due tipologie che ritornano spesso per inquadrare personalità artistiche diverse.

Nel campo della direzione d’orchestra, accanto a Riccardo Muti, che può essere considerato goethianamente il ‘favorito degli dei’ in rapporto alla immediatezza della propria talentuosità musicale, si trovano figure come quella di Claudio Abbado o del compianto Giuseppe Sinopoli, che hanno sempre accompagnato la loro vocazione con supporti teorico-filosofici molto pregnanti.

Tra i musicisti, Gioacchino Rossini è un esempio paradigmatico della prima tipologia di artista baciato dalla sorte, investito da una creatività febbrile. Precocissimo aveva composto il suo primo melodramma ad appena quattordici anni, il Demetrio e Polibio (1806) e in poco più di due decenni compose circa quaranta melodrammi.  Altro caso esemplare quello di Mozart che, essendo vissuto solo 35 anni e avendo composto opere decisive in età giovanile, distrugge dalle fondamenta la consueta vulgata cui sono particolarmente affezionati gli storici delle idee, la divisione per aree cronologiche ‘giovane/maturo’.

Alessandro Manzoni appartiene, invece, alle seconda categoria, ascrivibile all’ambito della creatività riflessa – quella che necessita di una fondazione teorica. Su questa particolare declinazione dell’attitudine-vocazione creativa ha scritto pagine di particolare penetrazione filosofico-psicologico-estetica Paolo D’Angelo nel suo recentissimo Le nevrosi di Manzoni. Quando la storia uccide la poesia (Bologna, Il Mulino 2013). Secondo D’Angelo, “se mai per un poeta è stato vero che la teoria è una malattia della letteratura, questi è stato Manzoni. L’incapacità di riconoscere un ruolo legittimo all’immaginazione, alla finzione, è la tabe per nulla segreta che ha corroso in Manzoni la forza creativa” (p. 17).

Un’incapacità che è il controaltare delle varie forme di nevrosi che perseguitarono il grande scrittore nelle fasi della sua maturità. Risiede nelle ragioni di fondo che sottendono queste dimensioni della nevrosi la causa originaria e fondamentale del ‘silenzio’ di Manzoni, ossia, metaforicamente, il fatto che dopo il suo grandissimo romanzo, I promessi sposi, la sua vena creativa, per così dire, si inaridì, rifugiandosi in altre forme e, in particolare, nello studio approfondito della storia.

L’interesse e la novità di tale ipotesi di ricerca si rivelano determinanti per una interpretazione della letteratura romanzesca contemporanea, si pensi in particolare a quel ‘ritorno alla realtà’ che è stato prospettato nella nostra letteratura, a partire dagli anni ’90, come reazione all’“epidemia dell’immaginazione” o a quella forma di ibridazione costante tra finzione e realtà.

Come suggerisce molto bene lo stesso D’Angelo nelle sue conclusioni: “…la rinuncia alla letteratura cui Manzoni finì per approdare non può che apparirci come un gesto di straordinaria coerenza, mai o quasi mai imitati dagli adepti contemporanei nella non-fiction…” (pp. 200-201). Il che riesce a spiegare molto bene la ragione per cui sugli scaffali delle grandi librerie, che stanno ormai sopprimendo il circuito di quelle più sofisticate e indipendenti, i romanzi storici vengano spesso collocati tra il genere fantasy e quello rosa.

 

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