Nella vicenda Ilva troppi giornalisti hanno accettato e rilanciato un numero misterioso: 40 mila. Uno per tutti il Corriere della Sera: “Ilva nel caos: 40 mila a rischio”. E’ un numero non verificato, da nessuna parte c’è uno straccio di documentazione, di disaggregazione attendibile dei dati.Ma allora quanti sono i posti di lavoro nell’Ilva Spa?

Sono 16.343 in 15 siti produttivi in Italia, Europa e Tunisia.  Di questi a Taranto sono 12.859, a Genova 1.600, a Novi Ligure 800, a Racconigi 80, a Marghera 120, a Patrica 70.
L’indotto a Taranto oggi conta circa 3 mila lavoratori.
Tutto il Gruppo Riva nel mondo ammonta a 21.711 dipendenti.

Alcuni specificano che sono a rischio “24 mila posti di lavoro diretti, 40 mila con l’indotto”. Ma se sommiamo tutti i dipendenti del Gruppo Riva nel mondo ai tremila dell’indotto di Taranto oscilliamo tra i 24 e i 25 mila.Con quali calcoli si arrivi invece ai fatidici 40 mila nessuno lo spiega. Mistero. Eppure 40 mila è la cifra che appare nei titoloni.
Tuttavia la bufala non è solo questo fantomatico numero di 40 mila.
La vera bufala è far credere che i lavoratori siano meglio tutelati lasciando ai Riva la piena libertà di spostamento dei profitti accumulati in anni e anni di produzione che i magistrati ritengono frutto di attività altamente inquinanti e per la qual cosa da tempo è partita una poderosa inchiesta dal nome emblematico: Ambiente Svenduto
L’accusa della magistratura è pesante: ammonterebbe a oltre 8 miliardi il profitto di un’attività ritenuta illecita penalmente.
“La ratio del sequestro – ha spiegato il procuratore Franco Sebastio – è quella di bloccare le somme sottratte agli investimenti per abbattere l’impatto ambientale della fabbrica”.
Sarebbe interessante capire come mai, invece di gioire per la mossa dei magistrati, stuoli di politici e giornalisti si preoccupino ora e non prima. 
Era meglio promettere la realizzazione di un’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) senza un piano industriale e senza quattrini? Che garanzia dava e dà un cronoprogramma di interventi promessi e non mantenuti, dato che le casse dell’Ilva risultavano stranamente vuote?
A Taranto il dubbio che inquietava prima (e non ora) era invece che tutta la storia dell’Ilva finisse con il fallimento dell’azienda e la dichiarazione fatale: non abbiamo più un euro in cassa, arrangiatevi. Avremmo avuto i lavoratori sul lastrico senza paracadute. E in più un deserto pieno di veleni e di rottami.
Questo scenario apocalittico, grazie alla magistratura, non c’è più.
Ora a Taranto lavoratori e cittadini hanno un paracadute, una polizza per il futuro. E una speranza di rinascita basata sulle bonifiche.
Al posto dell’incubo di un futuro non garantito da niente e nessuno, c’è ora la Guardia di Finanza che sta setacciando operosamente conti correnti, titoli e proprietà riconducibili al gruppo Riva e ai protagonisti di questa vicenda.
Perché allora fare allarmismo e parlare di 40 mila persone messe in pericolo se i magistrati stanno cercando proprio ciò che servirà ai lavoratori e ai cittadini, per garantire le bonifiche, il lavoro e un futuro possibile risarcimento?
La storia dell’Ilva di Taranto è contornata da politici e sindacalisti che non si sono preoccupati quando si dovevano preoccupare e che si preoccupano invece ora che dovrebbero al contrario gioire e ringraziare la magistratura. La magistratura ha saputo dimostrare che la legalità paga.
Utilizzando il grimaldello legale del “sequestro per equivalente”, il Gip Patrizia Todisco ha fatto come Robin Hood: toglie ai Riva per dare ai poveri.
Nessuno sembra apprezzare che questa volta Robin Hood agisce nella legalità. Come confondere allora le idee? Facile: capovolgendo tutto e inventando 40 mila persone in preda al panico. Perché solo un’ondata di panico può contrastare l’ondata di giubilo con cui a Taranto è stato accolto il “sequestro per equivalente” di oltre otto miliardi di beni e capitali dell’impero economico dei Riva.
 
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