Gianni Biondillo ha la particolare capacità di sentire, in anticipo, l’aria del tempo. E di scrivere, dunque, romanzi preveggenti. Era successo con “In nome del padre” dove – era il 2008 – affrontava le difficoltà e l’angoscia dei padri separati, prima di tante inchieste giornalistiche e fiction televisive. Succede oggi con il suo ultimo libro,”Cronaca di un suicidio“, come i precedenti edito da Guanda. Il romanzo inizia, appunto, con un suicidio, simile ai tanti che si possono leggere sulle pagine di cronaca: un comune cittadino, un’esorbitante cartella di Equitalia, l’impossibilità di far fronte alla somma richiesta, la messa a morte volontaria. Ma Biondillo, per fortuna, non è un cronista ma uno scrittore di razza, e quello che potrebbe essere frettolosamente liquidato come un instant-book sulla dolorosa epidemia di suicidi fra i piccoli imprenditori piegati dalla crisi e oberati di tasse che non possono pagare, è un giallo in piena regola.

Ma sempre un giallo “alla Biondillo”: dove, cioè, irrompe la realtà. “È più forte di me, non riesco a evitare lo sguardo sociale” spiega lo scrittore. “Del resto, mai come in questo caso avevo materiale reale dal quale attingere: cartelle più o meno pazze da Equitalia le abbiamo ricevute in tanti, io per primo. Per non parlare di amici che lavorano nell’editoria, nel cinema o nella tv che non hanno più lavoro e hanno dovuto inventarsi altre attività, perfino trasformare la casa in bed and breakfast”. Anche il protagonista di “Cronaca di un suicidio” è un intellettuale, non il classico piccolo imprenditore strozzato da crisi e fisco. Ma come tanti suoi compagni di sventura, anche Giovanni Tolusso era partito dal nulla, si era fatto da solo: da figlio di un muratore emigrato in Germania a sceneggiatore di successo delle fiction più amate delle reti generaliste. Finché un giorno arriva, appunto, la famosa cartella e il mondo che si era faticosamente costruito negli anni si sgretola fino a rovinargli addosso: la moglie, la casa di Milano e quella di Roma, addirittura la vecchia e povera catapecchia fra le montagne dalle quali il padre era fuggito in cerca di fortuna e che insieme avevano restaurato, tutto è perduto.

L’ispettore Ferraro, che i lettori di Biondillo ben conoscono, incappa nel suo cadavere, o meglio nella barca dalla quale ha spiccato l’ultimo tuffo, nel mare di Ostia. Ci stava nuotando insieme alla figlia adolescente con la quale trascorre la regolamentare vacanza di padre separato e che avrà un ruolo di investigatrice involontaria. Sulla barca Tolusso ha lasciato gli indumenti per ripiegati e un biglietto fermato da un sasso, perché non voli via: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono”. E sotto: “Non fate troppi pettegolezzi”. Un biglietto che ricorda Pavese, anzi, ricalcato dalle ultime parole vergate dallo scrittore morto come lui suicida. Quello che sembra un gesto disperato generato dalla crisi, nasconde però qualcos’altro. Ferraro se ne rende conto nel disbrigo delle pratiche di routine (avvisare la moglie a Milano, verificare le difficili condizioni economiche, presunto motivo del suicidio) che si trasformano in un’indagine sul destino di un uomo qualunque, fra Roma e Milano, in un’estate torrida, con l’unico sollievo della freschezza della gioventù, quella della figlia investigatrice involontaria.

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