Mattina di venerdì 17 maggio 2013. Una piccola aula al primo piano del tribunale di Milano. Aula deserta fatto salvo per giudici, imputati, accusa, difesa. In fondo due parenti siedono sulle panche di legno. Il procuratore aggiunto paragona la ‘ndrangheta al nord a “un sistema sofisticato e pericoloso”. Ben altra situazione al terzo piano, dove fotografi e giornalisti si ammassano per ascoltare la deposizione di Karima El Mahroug, in arte Ruby. La giovane marocchina viene sentita come testimone nel processo che vede imputati per favoreggiamento della prostituzione Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti. Ruby smentirà di aver avuto rapporti sessuali con Silvio Berlusconi. Tutto da pronostico. Intanto, al primo piano il processo è appena entrato nel vivo. Si parla di mafia a Milano, di intimidazioni e infiltrazioni negli appalti. Si rappresenta come negli anni la ‘ndrangheta abbia contaminato il sistema Lombardia. Argomento importante (sulla carta). Eppure taccuini e microfoni girano al largo.

Il procuratore aggiunto Laura Barbaini ha da poco iniziato la sua requisitoria. Si discute l’appello bis del processo Cerberus. Al centro c’è il potere e l’influenza della cosca Papalia che da oltre vent’anni domina nel comune di Buccinasco. La ripetizione del secondo grado si è resa necessaria dopo che nell’agosto 2012 la seconda sezione della Corte di Cassazione ha bocciato la sentenza del primo appello che aveva confermato le condanne inflitte dai giudici della settima sezione. Alla sbarra tornano così Salvatore Barbaro e suo padre Domenico (assenti per rinuncia), l’imprenditore Maurizio Luraghi e Mario Miceli (entrambi presenti in aula). Salvatore Barbaro, non ancora 40enne, secondo la procura, rappresenta le nuove leve della cosca. In dote porta il matrimonio con la figlia di Rocco Papalia, boss di peso che ha regnato su Milano per tutti gli anni Ottanta assieme ai fratelli, Antonio e Domenico. Legami di sangue e nozze pianificate per rafforzare il casato. Tanta letteratura mafiosa, però, non basta alla Cassazione che chiede alla dottoressa Barbaini, storico magistrato della Procura di Milano, di motivare, puntualizzare, spiegare.

Tutto sta nelle intercettazioni. L’accusa, addirittura, ne cita una inedita e mai contabilizzata nelle sentenze di primo e secondo grado. E’ l11 settembre 2004. All’epoca Rocco Papalia si trova nel carcere di Nuoro. Periodicamente riceve le visite del genero e della figlia. Quel giorno, però, non si parla di famiglia. Il potente boss viene informato dal giovane Barbaro sugli affari del clan: movimento terra, denaro, appalti. Addirittura si fa il nome di un imprenditore che nelle future speculazioni della ‘ndrangheta può essere di intralcio. Questo il quadro che, secondo la dottoressa Barbaini, conferma la continuità tra vecchia e nuova ‘ndrangheta, tra il saggio Rocco Papalia che, pur in galera, “partecipa alle problematiche gestionali”, e l’impulsivo Salvatore Barbaro. Per la cronaca, precisa l’accusa, l’imprenditore nominato nell’intercettazione del settembre 2004 sarà oggetto di un’intimidazione: la sede della sua azienda edile verrà colpita con quattro colpi di pistola. Un episodio che, secondo l’accusa, ha una spiegazione univoca: spianare la strada verso un mega appalto alla cosca Barbaro-Papalia.

Sì, perché un altro punto sollevato dalla Cassazione è legato ai numerosi episodi di intimidazione registrati dall’inchiesta, ma che, stando all’interpretazione dei giudici romani, non sono stati spiegati con precisi nessi di causalità. Anche qui, il procuratore aggiunto sbroglia la matassa partendo da un caposaldo: “A ogni intimidazione, incendi o colpi di pistola, corrisponde un subappalto vinto dal clan”. Succede per l’area Spina Verde, quando al governo di Buccinasco si è appena insediato il sindaco di centrosinistra Maurizio Carbonera. E’ il 2003, l’appalto lo intasca l’imprenditore Simone Bicocchi. Passano pochi mesi e nell’ordine vanno a fuoco le auto del sindaco e dello stesso Bicocchi, mentre un altro imprenditore abbandonerà i lavori. Risultato: l’appalto vai ai Barbaro. A Buccinasco capita poi che la ‘ndrangheta si dia ai furti di pale e badili. Vittima il signor Baronchelli che risolverà il problema affidando i lavori di subappalto alla ‘ndrangheta.

Il ragionamento dell’accusa corre via serrato. Gli episodi sono tanti. E tutti presentano la stessa stringente logica. Un’altra azienda che, tra il 2004 e il 2005, lavora al rifacimento della barriera antirmuore nei pressi di Rovido si ritrova la sede colpita da proiettili e un camion bruciato. E ancora: speculazione Buccinasco più, due milioni di euro l’appalto per il movimento terra. Ecco la ricostruzione dell’accusa: nel 2004 Salvatore Barbaro parla dei lavori con Rocco Papalia. Si fa il nome dell’imprenditore che potrebbe dare fastidio. A dicembre quell’imprenditore subisce un attentato. Nello stesso periodo viene danneggiata l’auto del capo dell’ufficio tecnico del comune di Buccinasco. “Aveva detto pubblicamente – spiega la Barbaini – di non far lavorare i Barbaro”. Nel 2005, Carbonera riceve una lettera con proiettili e gli va a fuoco un’altra macchina. Risultato: “Il cantiere di Buccinasco più viene definitivamente occupato dai Papalia”. Una conferma, ragiona il magistrato, arriva dalle parole di Luraghi. Dirà l’imprenditore: “Prenderemo tutto noi”.

Il procuratore aggiunto non ha dubbi: questa ‘ndrangheta, pur non compiendo omicidi, resta pericolosa. Per questo, nel dicembre 2010, poche settimane dopo le condanne di primo grado (tra i 5 e i 9 anni), Laura Barbaini presenta un appello incidentale per smentire l’impianto dei giudici di primo grado che “hanno applicato pene vicino ai minimi edittali, in quanto nessuna condotta violenta appare emergere dalle risultanze processuali”. Un documento inedito che l’accusa cita, per la prima volta, durante l’udienza del 17 maggio 2013. Secondo il ragionamento dell’accusa proprio “il non ricorso sistematico ad atti di prevaricazione (…) è indice di estrema pericolosità dell’associazione (…) che sceglie di mimetizzarsi per adeguarsi al diverso contesto sociale (…) rivelando una maggiore capacità di penetrazione sociale (…) insidiando e alterando i processi economici”.

Insomma il potere resta inalterato anche senza uccidere. Dimostrazione, ragiona l’accusa, il fatto che Luraghi riuscirà a spuntare un lavoro (con prezzi anche più alti) a scapito di quell’Ivano Perego, condannato per mafia nel processo Infinito, e che all’epoca si era portato in caso un boss di peso come Salvatore Strangio.

E del resto le parole di Maurizio Luraghi vengono spesso citate dall’accusa. Anche perché la stessa Cassazione ha chiesto di spiegare come mai Luraghi che secondo la procura è “un imprenditore colluso”, negli anni, risulterà vittima di diversi attentati incendiari. Secondo l’accusa la circostanza non cambia il ruolo di Luraghi che resta “partecipe” “la faccia pulita” “la copertura” di una ‘ndrangheta che per “dirimere le sue problematiche interne non esita a usare metodi violenti”. Tanto più, ragiona la Barbaini, “che tra Salvatore Barbaro e Maurizio Luraghi c’è un accordo primario, i due, in pubblico, devono apparire come due entità separate, mentre sotto banco proseguono gli accordi”. Un punto decisivo per l’accusa che interpreta così le intercettazioni di Luraghi. “Mente quando parla con sua moglie e si lamenta, non mente quando parla con i Barbaro”.

Naturalmente, e con tutto il diritto del caso, la difesa di Luraghi ragiona in maniera opposta. Luraghi è sincero quando, parlando con la moglie, confessa di essere vittima dei Barbaro. Non solo, seguendo questo impianto logico, l’imprenditore non è vittima di un’associazione (che per tutte le difese non esiste) ma di una sola persona: Salvatore Barbaro. Ma il ragionamento che, in fondo, rende traballante l’accusa, è il fatto che Luraghi ha perso la sua azienda perché la ‘ndrangheta si è portata via oltre un milione di euro. Un fatto sul quale i giudici dovranno ben riflettere per considerare Luraghi un imprenditore mafioso o una vittima. Oggi il verdetto finale, dopo le ultime arringhe difensive.

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