Giovedì 9 Maggio è stato il giorno nero delle “morti bianche”, espressione sbagliatissima per definire i morti sul lavoro (sbagliata perché in qualche modo attutisce la tragedia dei caduti sul lavoro).
Giovedì hanno perso la vita Ruci Nouruz, operaio di Durazzo e residente ad Acqui Terme, morto folgorato; Massimo Vianello, conducente di un taxi acquatico a Venezia, schiantato contro un molo; Giuseppe Mastrullo, agricoltore di Cerignola, schiacciato dal suo trattore; Piergiuseppe Zanesi, elettricista scivolato da una scala in un’azienda del Cremonese; Giovanni Cornacchia, manovratore, travolto da un vagone nell’area portuale di Monfalcone; Fernando Belli, 55 anni, imprigionato in una pressa nello stabilimento dove lavorava vicino a Chieti. Li ricordiamo perché non siano solo un numero, la notizia di una giornata di strage sul lavoro.
Dall’inizio dell’anno – i dati sono dell’Osservatorio indipendente di Bologna – sono documentati 172 lavoratori morti per infortuni sui luoghi di lavoro. A loro si aggiungono i lavoratori in nero che “spariscono dalle statistiche”, quelli che si ammalano a causa delle scarsa sicurezza delle fabbriche (e non c’è solo l’Ilva di Taranto) e, fenomeno sempre più in crescita, i disoccupati che si uccidono per la disperazione di non avere un impiego.
Il primo articolo della nostra Costituzione spiega: l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro; qualche buontempone, ciclicamente, salta fuori con l’idea di abolire la parola dalla Carta. Troppo “comunista” sostengono alcuni (siamo nel 2013, per favore), troppo simile a quelle società fondate sull’alleanza tra classi. L’unica verità è che quel dettato costituzionale è oggi un principio inapplicato. Specie se messo in relazione agli articoli 3 (Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge… È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…) e 4 (La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto ). Ora pare che perfino i nostri politici si siano accorti che il lavoro è un’emergenza, speriamo sia vero.

Mai come adesso c’è bisogno di un’azione che promuova “le condizioni” per rendere effettivo il diritto al lavoro. Restano i drammatici effetti di un imperdonabile ritardo (e qui a essere maggiormente chiamata in causa è la sinistra che ha smesso, da anni, di occuparsi di lavoro), figlio di un’idea pericolosa e criminale. La ricordava benissimo Furio Colombo, domenica scorsa su questo giornale: “Se prestate attenzione alla politica italiana, vi accorgerete che il lavoro esiste solo come opera buona, che alla fine, quando avremo accumulato di nuovo le giuste risorse, potremo tornare a distribuire, come i pasti caldi e le coperte dopo i terremoti”. Ma attenzione: i terremoti sono democratici. E questa volta, un paese impoverito e impaurito, popolato di persone di tutte le età costrette a elemosinare un impiego per vivere, non perdoneranno più lo spietato egoismo della miopia politica.

Twitter: @SilviaTruzzi1

Il Fatto Quotidiano, 12 Maggio 2013

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