Il 10 maggio 1933 è una delle date più plumbee della storia della cultura europea. In varie città della Germania, il nazismo giunto al potere da alcuni mesi organizza giganteschi roghi di libri svuotando le biblioteche delle principali città universitarie tedesche. Senz’altro il più vasto e pianificato incendio di libri della storia contemporanea, per quanto l’atto non sia affatto nuovo nel corso delle vicende umane. Uno degli esempi più vicini e metodici è quello dell’Inquisizione, con la Congregazione dell’indice che compilava l’elenco dei libri proibiti il cui destino era la distruzione. Frequenti sono anche i richiami letterari al rogo di libri dal Shakespeare de La Tempesta ad Almansor di Heine Heinrich del primo Ottocento di cui è noto il passaggio: “Dove arde il libro, in fin si abbrucia l’uomo”.

Il rogo di libri è un atto di devastante violenza psicologica poiché assume i tratti di un annientamento simbolico dell’uomo, del suo sapere, delle sue idee. Dal marzo 1933, in Germania, sono già attivi i campi di concentramento per gli oppositori politici. A fine febbraio l’incendio del parlamento, organizzato dai nazisti e attribuito alle sinistre, è servito a intensificare le azioni repressive di Hitler.

A prendere fuoco in quel 10 maggio – come nei giorni precedenti e successivi – sono tutti quei libri giudicati contrari allo spirito tedesco e colpiscono gli autori ebrei – Sigmund Freud tra questi – i comunisti, i socialisti e tutti coloro che sono stati sostenitori dell’appena abbattuta Repubblica di Weimar. In quello stesso giorno, a testimonianza dell’impeto distruttore del nazismo, è sequestrato il patrimonio del principale partito di opposizione (il Partito socialdemocratico) e vengono espropriate le sue oltre cento tipografie.

A colpire è la partecipazione della popolazione a queste manifestazioni, organizzate con precisi rituali come nella piazza del Teatro dell’Opera di Berlino, il rogo notturno più noto, trasmesso anche dalla radio, che diventa la spinta per altri falò nelle principali città tedesche, come nelle minori, sin oltre la metà del mese di giugno. Sono manifestazioni che mobilitano i militanti nazisti alle quali dà corpo il diffuso quotidiano del partito “Volkischer Beobachter”. Spesso in prima linea nei roghi – come a Berlino – ci sono gli studenti davanti all’entusiasta ministro della propaganda Paul Josef Goebbels. E’ una violenza che crea consenso e consenso attraverso il terrore. Accadrà lo stesso per successivi eventi pubblici come le arianizzazioni e la notte dei cristalli del 1938 quando sono infrante le vetrine di decine di migliaia di negozi ebrei in tutta la Germania. Dopo i libri tocca agli artisti e agli autori, ridotti al silenzio e costretti a emigrare, tra gli altri: Heinrich Mann, Thomas Mann premiato con il Nobel per la letteratura nel 1929  e Bertold Brecht.

E’ il delirio nazista e pangermanista della dittatura in atto che nasconde paure profonde come quella, evidente già durante l’Ottocento, di essere contaminata dagli slavi ad est e dalla Francia a ovest. Come ogni assolutismo iconoclasta, i roghi sono  una fuga dalla realtà. In questo caso l’avversione alla cultura mostrata dai nazisti maschera la preoccupazione del mantenimento del consenso. Il dominio del Partito nazista è certificato dalla costruzione di un articolato apparato di simboli. Il lavoro, ad esempio, è innalzato a elemento sacro in funzione della nazione e del popolo, ma spogliato di ogni diritto. Quanto all’accesso all’istruzione, il nazismo non manca di ribadire gerarchie razziali arrivando a negare l’accesso alla scuola per gli ebrei e a proibire la letteratura e ogni rudimento di alfabetizzazione per gli slavi nei territori occupati durante la guerra. Altrettanto noto è l’atteggiamento di uno degli uomini più potenti del Reich nazista, Hermann Göring che quando sentiva parlare di cultura, “metteva mano alla pistola”.

Il libro non è sempre portatore di conoscenza, complessità, dubbio. I roghi e l’ascesa dei fascismi (che arrivano a minacciare pure la Francia) si spiegano anche con la proliferazione di una vasta letteratura razzista e antisemita che dall’Ottocento arriva fino all’affermazione del nazismo ed è naturalmente ben conosciuta a Hitler e al suo gruppo dirigente. Nei primi anni della Repubblica di Weimar ottiene un grande successo il romanzo razzista segregazionista di Hans Grimm ambientato in Africa, Un popolo senza spazio, a riprova di quanto siano bene accolte queste tesi fra la borghesia istruita.

Ordine, segregazione, autorità diventano lo sfogo anche alla frustrazione di masse avvilite, nel giro di pochi anni, da due epocali crisi economiche. Masse abbacinate da soluzioni semplici quanto violente saranno poi complici di un più grande disegno di distruzione e di morte.

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