Giulio Andreotti è morto oggi a 94 anni. Fu sette volte presidente del Consiglio dei ministri, otto ministro della Difesa, cinque degli Esteri e due delle Finanze, bilancio e industria. Infine passò anche per il Tesoro, l’Interno e le Politiche comunitarie. Giulio Andreotti, nato a Roma nel 1919, è stato un pezzo della politica italiana, un uomo fondamentale e di un potere che forse nessun altro ha mai avuto, sia all’interno del partito, sia negli apparati statali. Nominare Andreotti significava mettere sull’attenti chiunque.

Forse è anche per questo, e per una buone dose d’invidia, che nel corso della sua storia venne soprannominato in tanti modi. Il “Divo” dopo un articolo di Mino Pecorelli, discusso giornalista e direttore della rivista Op, il “gobbo” per la conformazione fisica, lo “zio” per le accuse che accostavano il suo nome alla mafia, “Belzebù” in accoppiata a Belfagor-Licio Gelli e la “volpe”. Nomignoli ai quali lui rispondeva con quell’ironia molto romanesca che riusciva a incantare gli elettori che per questo lo hanno amato e votato. Nonostante la carriera politica sia ancora carte da decifrare. E oggi faranno a gara i commentatori per dividersi tra coloro che lo considerano e lo hanno sempre considerato un grande statista e tutti gli altri.

Sicuramente è stato un pezzo della storia politica importante dell’Italia, dalla Costituente all’inizio degli anni Novanta, quando tangentopoli la Dc la spazza via.

Andreotti iniziò a 20 anni a fare politica nelle fila della Fuci, la Federazione universitaria cattolica italiana che allevò tante leve dello Stato del dopoguerra come Aldo Moro, Francesco Cossiga, Giuseppe Dossetti e Giuseppe Lazzati. Fu Alcide De Gasperi nel 1948, a volerlo nell’Assemblea Costituente e, successivamente, candidato, con le prime elezioni libere. Da allora è sempre stato eletto in Parlamento, fino al 1991, quando l’allora presidente della Repubblica Cossiga lo nomina senatore a vita.

Da delfino di De Gasperi all’uscita di scena degli avversari. Per Andreotti, la figura di De Gasperi, leader del Partito Popolare e poi fondatore della Democrazia Cristiana, fu quella di un maestro e di un apripista (per quanto avesse riferito su di lui agli Alleati) tanto che già nel 1947, dietro la sollecitazione di Giovanni Battista Montini, dal 1963 papa Paolo VI, lo nominò sottosegretario dalla presidenza del consiglio. Forte dei voti che gli derivavano dal radicamento nella circoscrizione laziale (e a cui, dal 1968, si aggiunse il supporto siciliano del “grande elettore” Salvo Lima con tutti gli strascichi giudiziari degli anni Novanta), Andreotti sapeva sfoderare capacità diplomatiche che lo resero centrale in più di un’occasione.

Quella ricordata con maggiore frequenza è il sabotaggio della cosiddetta “operazione Sturzo”. Era il 1952 e a Roma si preparavano le elezioni amministrative in cui la Dc sembrava in aria di presentare una lista capeggiata da Luigi Sturzo e appoggiata da monarchici e postfascisti. Ad Andreotti era chiaro che una mossa del genere avrebbe innescato una crisi di governo, vista la contrarietà espressa da liberali, repubblicani e socialdemocratici. E così si attivò presso papa Pacelli, Pio XII, sfruttando i buoni servigi della sua più stretta collaboratrice, suor Pascalina. Ottenne l’effetto di bloccare il progetto politico dal futuro catastrofico e guadagnò punti sul suo padrino politico, De Gasperi, che invece aveva fallito nello stesso intento.

Il 1954, l’anno in cui De Gasperi muore, è anche quello in cui Andreotti diventa per la prima volta ministro. A 35 anni si ritrova a capo degli interni, il ministero della pubblica sicurezza, ed è proprio il periodo in cui – tra delitto Montesi (dal cognome di una ventunenne, Wilma, trovata senza vita nel 1953 sulla spiaggia di Torvaianica) e scandalo Giuffré su attività finanziarie truffaldine che pur lo lambirono – videro uscire di scena alcuni suoi concorrenti, come Attilio Piccioni, il cui figlio rimase coinvolto nella vicenda della ragazza romana.

Arrivarono i tempi dei dossieraggi dei servizi segreti e i venti di golpe. La fine degli anni Cinquanta coincise con la conquista di un’altra roccaforte di potere, il ministero della difesa, e qui rimase fino a quando scoppiò un altro scandalo. Fu quello dei dossieraggi del Sifar al tempo del generale Giovanni de Lorenzo, 150 mila fascicoli su politici, sindacalisti, intellettuali e altre personalità pubbliche – a iniziare dal candidato al Quirinale Giovanni Leone e soprattutto da sua moglie Vittoria – che avrebbero dovuto essere distrutti in un inceneritore di Fiumicino e che invece vennero in parte ritrovati nell’archivio uruguaiano della P2.

A questa vicenda si aggiunse la preoccupazione destata dal “Piano Solo” che nel 1964 aveva fatto temere il golpe e il cui scopo politico ultimo fu il contenimento delle istanze del partito socialista durante i primi governi di centrosinistra. Ma nel corso di quel periodo, ci fu anche un evento che segnò la permanenza di Andreotti alla difesa: la commissione d’inchiesta sulla morte di Enrico Mattei, il presidente dell’Eni precipitato nel 1962 con il suo aereo nei cieli di Bascapè. Commissione che in 4 mesi si pronunciò escludendo l’ipotesi dell’attentato, riemerso invece molto più tardi, negli anni Novanta, nelle inchieste dell’allora sostituto procuratore di Pavia Vincenzo Calia.

Sindona, Gelli, il terrorismo e il delitto Moro: il nodo degli anni Settanta. Se il sesto decennio del Novecento fu un periodo di mare grosso, ma anche di ulteriore forza politica per Giulio Andreotti, quello successivo non fu da meno. I Settanta infatti si aprirono presto sul “salvatore della lira” Michele Sindona e sulle malversazioni delle sue banche, con i fallimenti del 1974 e che videro il Divo in stretto contatto – per quanto filtrato da una rete costante di intermediari, tra cui il suo braccio destro, Franco Evangelisti – con chi tentava il salvataggio degli interessi del banchiere nato in Sicilia e trasferitosi a Milano negli anni Cinquanta attestandosi come un mago dell’economia e della sparizione di capitali all’estero.

Su queste magie, nell’autunno del 1974, venne chiamato a lavorare il commissario liquidatore Giorgio Ambrosoli che, dopo quasi 5 anni di lavoro, attacchi istituzionali, minacce e la quasi in completa solitudine (oltre a uno stretto pool di collaboratori, l’avvocato poté contare sull’aiuto solo del maresciallo della guardia di finanza Silvio Novembre), arrivò a ricostruire le trame sindoniane per finire assassinato. Accadde l’11 luglio 1979 per mano del killer William Joseph Aricò su mandato di Sindona. E nel 2010, in una delle sue ultime apparizioni, di fronte alle telecamere di Giovanni Minoli, Andreotti commentò che Ambrosoli “in termini romaneschi se l’andava cercando”. Subito dopo, in piena polemica, sostenne di essere stato frainteso.

Ma gli anni Settanta non hanno significato solo questo. Sono infatti coincisi con il periodo delle stragi, a iniziare da quella di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e di dichiarazioni fatte per proteggere sodali, come il finto giornalista Guido Giannettini (per il cui favoreggiamento Andreotti fu prosciolto nel 1982) o l’estremista di Ordine Nuovo Giovanni Ventura. Episodi che, nel corso dei processi per i fatti della Banca Nazionale dell’Agricoltura, verranno a galla e già prima erano state ammesse a mezzo stampa quando non era più possibile negarle. E che porteranno alla condanna da parte di uomini di Andreotti nei servizi, come il generale Gianadelio Maletti, riparato in Sudafrica dopo la sentenza del 1979.

Gli anni della strategia della tensione hanno significato inoltre sequestro e delitto Moro (dal 16 marzo al 9 maggio 1978), la linea della fermezza smentita da tentativi di trattative occulte e i comitati per la gestione dell’emergenza fortemente infiltrati da aderenti alla loggia massonica P2 proprio nel periodo in cui Giulio Andreotti era presidente del consiglio dei ministri e Francesco Cossiga agli interni. Ci sono state le leggi speciali contro il terrorismo e la solidarietà nazionale dell’esecutivo che soppiantò l’avvicinarsi del compromesso storico con il Pci.

Da via Monte Nevoso a Gladio: altri segreti da non poter più negare. Tutte vicende, queste, che non hanno mai smesso di far indagare e scrivere, nonostante il riflusso, anche istituzionale e per quanto rotto da periodiche crisi, degli anni Ottanta. Divenuto nel 1983 ministro degli esteri nel corso del primo governo presieduto da Bettino Craxi, con lui il Divo si scontrò più volte, come nel corso della crisi di Sigonella.

Era il 1985 e il premier socialista arrivò alla rottura dei rapporti con il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan mentre Andreotti cercava la via della trattativa con i palestinesi, forte dei suoi rapporti consolidati con Yasser Arafat. Ma fu in quel decennio che si consolidò il Caf (Craxi, Andreotti e Forlani) in opposizione alla tradizione pentapartitica che un altro democristiano, Ciriaco De Mita, avrebbe voluto conservare.

Con la caduta del muro di Berlino e la fine del bipolarismo Usa-Urss, ecco che nel 1990 si approssimò un altro scandalo. Era il periodo in cui Francesco Cossiga aveva già conquistato il Quirinale perché, nel 1985, era stato ritenuto – a torto – dai suoi compagni di partito un capo di Stato non troppo presenzialista. Ma nell’estate 1990 fu ormai innegabile l’esistenza di Gladio di cui Cossiga sapeva molto, un esercito segreto nato a seguito di accordi bilaterali risalenti agli anni Cinquanta tra servizi italiani e statunitensi.

Il 2 agosto di quell’anno, a 10 anni dalla strage alla stazione di Bologna, Andreotti promise che in una sessantina di giorni avrebbe riferito al parlamento sull’argomento. Intanto accadde che il 9 ottobre saltò fuori una nuova versione del memoriale di Aldo Moro dal covo milanese di via Monte Nevoso e 11 giorni più tardi, il 20 ottobre, Andreotti consegnò la prima versione del suo rapporto, intitolato “Sid parallelo – Operazione Gladio”, poi ridotto il 23 ottobre in un nuovo documento più stringato, chiamato semplicemente “Operazione Gladio”.

A quel punto Cossiga “impazzì” e dall’aplomb sfoderato almeno in sede pubblica passò alla carriera da “picconatore” con attacchi istituzionali ad Andreotti che, come suo costume, preferì scartare. Accusato negli anni successivi di aver favorito cosa nostra e di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, assassinato a Roma il 20 marzo 1979, dopo la nomina a senatore a vita dal punto di vista politico fu un progressivo ritiro, tra nuovi partiti d’ispirazione cattolica e suspance quando si trattava di appoggiare o meno i governi di centrosinistra di Romano Prodi e Massimo D’Alema.

E forse, uno dei sunti migliori su un’attività così lunga e così piena di luci e ombre, la diede il film biografico “Il divo” uscito nel 2008 per la regia di Paolo Sorrentino: “È inimmaginabile per chiunque la quantità di Male che bisogna accettare per ottenere il Bene”.

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