Dopo una campagna elettorale demenziale e due mesi di stasi grottesca durante cui i partiti, nessuno escluso, non sono stati capaci di concepire alcuna seria proposta di riforma dell’unione monetaria, sembriamo destinati a perdere altro tempo e risorse preziose con la sospensione (o l’abolizione, o perfino la restituzione) dell’Imu.

Con una disoccupazione giovanile che sfiora il 40% e un tasso di crescita del Pil negativo da ormai cinque anni, l’accanimento bipartisan contro la tassa sugli immobili è semplicemente incomprensibile dal punto di vista economico.  

Certamente l’Imu, come tutte le imposte, è odiosa per chi è tenuto a pagarla, ha dei difetti tecnici non indifferenti e implica delle inefficienze. Come ha scritto Massimo Bordignon su Lavoce.info, la base imponibile è mal definita “perché costruita a partire da un catasto antico e poco rappresentativo dei valori di mercato delle abitazioni”. Inoltre la sua estensione alla prima casa nel 2012 ha comportato un salasso inatteso per le famiglie contribuendo a una ulteriore contrazione dei consumi.

Come tutte le imposte però l’Imu concorre al finanziamento dei servizi pubblici, cui nessuno sembra disposto a rinunciare. E rispetto ad altre forme di finanziamento, presenta dei pregi che imporrebbero al governo di calare la scure su altre tasse più inique e inefficienti, e di impiegare in modo più fruttuoso le risorse che serviranno per coprire il buco che sarà provocato dalla sua abolizione (o sospensione) nei bilanci della Pubblica Amministrazione.

Matteo Rizzolli ha spiegato su iMille che l’imposta sugli immobili è una delle poche forme di prelievo fiscale in grado di mettere d’accordo i liberali, i socialdemocratici, e perfino gli economisti.

L’Imu “piace” ai liberali perché genera distorsioni relativamente modeste nei comportamenti dei contribuenti e, in linea di principio, può svolgere un ruolo fondamentale nell’attuazione del federalismo. Una delle difficoltà più gravi nella progettazione di un’imposta è la divergenza tra il contribuente di diritto (colui su cui formalmente grava l’imposta) e il contribuente di fatto (chi l’imposta la paga per davvero). Per esempio, se un comune introducesse un’imposta sul reddito da lavoro, a parità di condizioni (cioè in un mercato del lavoro ipotetico e perfettamente efficiente) i lavoratori potrebbero spostarsi in un comune limitrofo per offrire i propri servizi lavorativi. Ne seguirebbe una diminuzione dell’offerta di lavoro nel comune che ha introdotto l’imposta, in cui si verificherebbe un rialzo dei salari. In questo modo il pagamento dell’imposta a carico dei lavoratori che rimangono sarebbe interamente finanziato dai datori di lavoro, che costituirebbero i veri contribuenti di fatto. Si tratta solo di un esempio, intendiamoci. Un ragionamento simile si potrebbe fare per i contributi sociali, che in teoria dovrebbero colpire anche i datori di lavoro ma in pratica vengono spesso “traslati” da questi ultimi sui lavoratori, che ne sopportano l’onere maggiore.

Nel caso dell’imposta sugli immobili è invece molto più probabile che non ci sia differenza tra contribuenti di fatto e di diritto: non si può spostare una casa da un comune all’altro per pagare meno tasse. È per questo che in tutto il mondo imposte affini all’Imu costituiscono la principale fonte di finanziamento per gli enti locali (ma va precisato che in Italia il gettito dell’Imu è solo in parte destinato agli enti locali). E non è un caso che in queste ore i sindaci di diversi comuni, compresi quelli di centrodestra, stiano lanciando l’allarme sulla eventuale tenuta dei conti locali.

L’Imu non è sgradita neanche a sinistra perché costituisce, di fatto, l’unica forma di patrimoniale facilmente realizzabile, dato che si applica in maniera proporzionale al valore del patrimonio e non a quello delle rendite da esso derivanti. Ma soprattutto, l’imposta sugli immobili ha dei sia pur grossolani caratteri di progressività, nel senso che colpisce maggiormente chi ha una maggiore capacità contributiva. Circa la metà delle famiglie italiane non la paga o perché non possiede un’abitazione (e questi sono generalmente i più poveri) o perché la detrazione annulla l’onere di imposta. Inoltre il pagamento è concentrato prevalentemente sugli scaglioni di reddito più elevati.

La difficoltà di traslare l’imposta implica anche una maggiore trasparenza del sistema tributario, che in tempi di forte stress fiscale è un presupposto fondamentale per la preservazione di un livello minimo di coesione sociale (che a sua volta costituisce anche un deterrente contro l’evasione).

Gli economisti apprezzano l’Imu non solo per la trasparenza e la modestia degli effetti distorsivi, ma anche perché incentiva un uso produttivo delle risorse immobiliari. Come ha ricordato Matteo Rizzolli, case sfitte e terreni incolti diventano un costo in presenza di una imposta sugli immobili, e il boom nell’offerta di case vacanze in affitto indica un aumento della produttività del patrimonio immobiliare.

La letteratura economica dimostra inoltre che le imposte sui beni immobili sono una delle forme di tassazione meno dannose per la crescita. Nella recessione in cui ci troviamo è evidente la necessità di spostare gradualmente l’asse del prelievo fiscale dalle imposte sul lavoro e sul capitale, che deprimono l’occupazione e scoraggiano gli investimenti, alle imposte sulla proprietà. La riduzione delle tasse sul lavoro è in effetti uno degli obiettivi annunciati da Enrico Letta nel suo discorso di insediamento (in cui, a onor del vero, c’è di tutto). Sarebbe quindi opportuno smettere di perdere altro tempo con l’Imu e dedicarsi alla vera emergenza nazionale, il lavoro.

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