Militarizzazione dell’industria elettrica, già nazionalizzata da anni ma dove l’opposizione ha ancora una presenza notevole tra i tecnici, anche se non più tra i dirigenti. Questa è la vera vera guerra che si combatte in queste ore a Caracas tra chavisti e antichavisti, mentre continua il braccio di ferro mediatico sulla contestazione del risultato elettorale (battaglia di retroguardia per l’opposizione perché i giochi ormai sono fatti). Herique Capriles, candidato della destra sconfitto il 14 aprile per meno di 280mila voti da Nicolas Maduro, designato da Chávez come suo successore, ha dichiarato che non accetterà la verifica del risultato del voto perché non considera sufficienti le garanzie di imparzialità offerte dal Consiglio nazionale elettorale. Impugnerà la vittoria chavista. Ma la battaglia formale sulla contestazione dei risultati gli serve più che altro a tenere mobilitati i suoi sostenitori.

Con Maduro proclamato formalmente presidente, riconosciuto come tale internazionalmente, benedetto da una provvidenziale riunione straordianaria di Unasur (l’Unione delle nazioni dell’america del sud, organismo di crescente efficacia nella risoluzione delle crisi politiche latinoamericane) e con tanto di giuramento dei nuovi ministri già avvenuto, sarà difficile ribaltare l’esito delle elezioni. Per di più Maduro tra men di due mesi assumerà la presidenza temporanea del Mercosur, il mercato comune latinoamericano a tandem politico (finora) brasiliano-argentino.

Difficile che una battaglia sul risultato di elezioni, già dichiarate corrette da tre organismi internazionali chiamati a vigilarle, sfoci in qualche risultato concreto. Continuare con le azioni di contestazione formale del voto serve in realtà a Capriles quasi solo a non svuotare le sue piazze. La polarizzazione politica in Venezuela è altissima, la violenza politica pure. Ciascuno deve avere le sue truppe a disposizione, sempre pronte a scendere in strada, a confrontarsi e a misurarsi in marce contrapposte.

Ma Maduro sa che ha vinto per poco e soprattutto che ha perso sostenitori anche in quei settori popolari tradizionalmente chavisti. Mentre manda i militari a prendere il controllo dell’industria elettrica nazionale, unica vera mossa politica pesante compiuta nell’era del dopo Chávez e che gli serve anche a tener buona una parte delle forze armate, chiede ogni due per tre “a quei compatrioti che hanno votato per la borghesia fascista” di tendergli una mano. “Venite con noi, il Venezuela è di tutti” sta dicendo in ogni comizio, in ogni angolo del Paese, dal giorno del voto.

I dissidi interni nel dietro le quinte del chavismo di governo sono tanti. I rivali di Maduro pure. Riuscire a tenerli buoni tutti, tentando di riconquistare contemporaneamente i voti persi, non è impresa facile. Non rasserena gli animi dei militanti dell’una e dell’altra parte la notizia dell’arresto di uno statunitense accusato di “essere coinvolto in piani di destabilizzazione” . Si chiama Timothy Allet Tracy, ha 35 anni e il ministero degli Interni lo considera il collettore di finanziamenti destinati a giovani e studenti con il fine di organizzare disordini e violenze in funzione antigovernativa.

Secondo il ministro degli Interni, Miguel Rodriguez, i supposti finanziamenti sarebbero arrivati attraverso ong prima delle elezioni presidenziali. L’accusa pronunciata dal ministro è pesante: il ragazzo avrebbe ricevuto “istruzioni da servizi di intelligenza“. “La missione era condurci sull’orlo della guerra civile” perché poi “una potenza straniera” potesse “intervenire a riportare l’ordine”. Il ministero vincola Timothy Allet Tracy ai militanti di “operazione sovranità”, nuovo gruppetto antichavista di pochi mesi di vita. L’episodio segna un cambio di marcia da parte del governo nella reazione agli scontri violenti di questi giorni. Il dipartimento di Stato ha fatto sapere venerdì di essere “in attesa di notizie”.

A dimostrazione di quale brutta aria tiri a Caracas basti sapere che Diosdado Cabello – presidente del parlamento unicamerale, militare influente e leader interno contrapposto (a parte la recita della direzione collettiva) a Nicolas Maduro, – ha fatto sapere di volere “sospendere il pagamento” degli stipendi ai deputati dell’opposizione. “Perché pagarli se non lavorano?”, ha detto. La settimana scorsa durante una seduta dell’Assemblea Cabello li ha interpellati in aula uno per uno. “Lei deputato (nome e cognome) riconosce il presidente Maduro? Ah non lo riconosce? Non parla. Finché io sono il presidente di quest’Assemblea chi non riconosce il presidente non ha diritto di parola”. Diosdado Cabello ha buon gioco, in questo momento, a forzare la mano per imporre a Maduro il gioco duro.

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