Con quali parole  raccontare la violenza contro le donne?

“Una pistola per Esmeralda, una corda per Rita, una pallottola per Concetta ed una per Annamaria, un coltello per Hane, un martello per Camilla”: donne uccise dai compagni o ex  che sono ricordate nel libro L’ho uccisa perché l’amavo. Falso! , di Loredana Lipperini e Michela Murgia per la collana Idòla di Laterza, uscito da poco nelle librerie. Una interessante analisi dei significati e del linguaggio che i giornalisti e le giornaliste adoperano per raccontare i femminicidi negli articoli di cronaca e nei servizi televisivi.  

Chi lavora nelle relazioni di aiuto o fa la (o il) terapeuta sa quanto sia importante l’uso delle parole nella costruzione o ricostruzione dell’esperienza nel processo di elaborazione del lutto, del trauma o di vissuti dolorosi. Con quali parole, immagini, modelli di mascolinità e femminilità  elaboriamo socialmente la violenza contro le donne e i femminicidi? La stampa e la televisione giocano un ruolo rilevante in questo processo di elaborazione collettiva, ma riescono ad esserne all’altezza? E’ un processo di elaborazione o piuttosto di rimozione quello che viene condotto  sulle pagine dei giornali? Che cosa si rimuove?

Questo è un tema caro ai centri antiviolenza fin dal primo convegno nazionale che si svolse a Marina di Ravenna, nel 1996,  e poi negli anni fu motivo di confronto con  i giornalisti.

Sono trascorsi quasi vent’anni da quel primo convegno ma lo schema che viene ripetuto nella cronaca  è quasi sempre lo stesso.

Il femminicidio nei media, ci dicono  Loredana Lipperini e Michela Murgia, viene  generalmente legato a due motivi: l’amore o la malattia. Quando il movente viene identificato nel delitto passionale, quello per “troppo amore” si confonde l’amore con la rabbia o l’incapacità di affrontare solitudine e abbandono. Quando è identificato con la malattia, si lega l’atto omicida ad una patologia, a qualcosa che fa parte della devianza.

La violenza viene quasi sempre spiegata come  un “raptus” o una  “follia omicida”, anche se  l’uccisione della donna avviene dopo anni di violenze familiari o stalking, e le indagini rivelano che il delitto era stato organizzato precedentemente. Negli articoli di nera o nei servizi televisivi si sottintende o si esplicita che a scatenare la “follia” sia stato un comportamento “sbagliato” della donna che ha scatenato la reazione distruttiva dell’ex compagno. Al femminicida vengono attribuite quasi sempre buone qualità (più raramente se è straniero):  “buon padre”, “bravo ragazzo”, o viene messa in luce l’infelicità. La donna invece viene spesso descritta come una portatrice di disordine che aveva (o aveva avuto) molte relazioni”, o non accudente, o infedele. Una donna che non rispettava le aspettative sociali e quelle del compagno, di essere una “buona moglie”.  

Con l’uso di queste  parole i giornalisti e le giornaliste  hanno la responsabilità più o meno inconsapevole di confermare la cultura che giustifica la violenza nei confronti delle donne. Dobbiamo imparare a parlare della morte delle donne, suggeriscono le autrici,  a nominare il femminicidio, senza paura, lo devono fare i media e lo dobbiamo fare tutti.

 

Nadia Somma

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