L’aria è pesante. La riconciliazione sotto l’ombrello di Giorgio Napolitano e la strana e improvvisa alleanza sotto il labaro di Matteo Renzi contano fino a un certo punto. Doveva essere, insomma, il momento della resa dei conti nel partito, degli stracci che volavano, delle verità sputate in faccia. Al contrario la direzione nazionale riunita poco prima dell’incontro al Quirinale per le consultazioni non decide granché. Anzi: nulla. Un modo per non mettere in vetrina (cioè in streaming) tutte le contraddizioni esplose nel momento più alto della vita della repubblica, cioè l’elezione del suo presidente. Proprio dietro al paravento (Napolitano) si sistemano tutti i dirigenti. Resta solo la conferma delle dimissioni di Bersani come unica assunzione di responsabilità.

Il Pd non fa i conti con se stesso. C’è chi prova a riportarlo alla realtà. La “scissione”, se c’è, non è solo tra correnti, ma anche e soprattutto tra generazioni. Da una parte Serracchiani, Civati, Orfini, dall’altra Franceschini, Finocchiaro, Marini. Debora Serracchiani lo aveva detto da lontano: “Sono incazzata con il partito”. Aveva ripetuto: “Perché non votiamo Rodotà?”. Poi ha fatto il miracolo, strappando il Friuli Venezia Giulia al centrodestra dopo giorni in cui il partito è stato demolito grazie all’incessante lavorio delle correnti impazzite. Ma neanche oggi è riuscita ad acquisire il diritto di farsi rispondere ponendo peraltro domande che larga base dell’elettorato democratico – più che smarrito – si è fatto negli ultimi giorni. Perché si è scelto Marini? Perché è saltato Prodi? Perché no a Rodotà? Perché siamo al governissimo quando si era votato due volte di no?

La Serracchiani è l’unica che prova a rimettere al centro l’esame dei motivi dello sfarinamento di un partito dato per stravincente e gaudente fino a due mesi fa. Il suo l’intervento è il più breve di tutti, ma le basta per scandire che “è mancata ogni spiegazione: vorrei capire perché sono state fatte due direzioni per poi fare un accordo sul nome di Marini. Vorrei capire come mai il no a Prodi ed il no a Rodotà. Vorrei capire come mai siamo arrivati all’elezione di Napolitano. Non sto dicendo che non condivido” queste scelte ”o che le contrasto, ma semplicemente voglio capire per poterlo spiegare ai nostri elettori”.

La risposta però non le arriva. “Capisco bene che nell’opinione pubblica – replica Bersani – la sovrapposizione temporale tra il tema del governo e quello della Presidenza della Repubblica può aver determinato degli sbandamenti. Ma in Direzione avevamo detto ‘no’ al governissimo, ma anche una apertura per soluzioni condivise sui temi istituzionali. Se non distinguiamo tra il tema del governo e il tema istituzionale facciamo attenzione, perché galoppiamo verso un’altra Repubblica”. Insomma: come si sia arrivati a Marini e ai no a Prodi e Rodotà e a un disastro simile non è dato sapere.

Divisioni sotto al tappeto, spalle coperte da Napolitano
Il Pd sceglie dunque di trincerarsi in un incondizionato sostegno al capo dello Stato e, d’altronde, è il minimo dopo avergli chiesto di ricandidarsi al Colle a 88 anni. Insomma: lo sforzo per dirsi la verità dentro il partito è posticipato a data da destinarsi. La direzione nazionale pare un banale replay delle dichiarazioni di questi ultimi giorni e, se possibile, con toni ancora più appannati, blandi, svogliati. Gli unici accenti di richieste di chiarimento (il più diretto quello della neopresidente del Friuli Venezia Giulia) finiscono per essere incartate nella gommapiuma. Nessuna operazione verità, dunque.

Il risultato della direzione è stato quello di approvare a larghissima maggioranza il documento con cui il partito dà pieno sostegno al tentativo del presidente Napolitano di dare vita a governo “mettendo a disposizione la propria forza parlamentare e le proprie personalità”. Tutto a posto? “Sette voti contrari, 14 astenuti su 223 membri in un voto destinato ad essere ricordato come storico. Più del 90 per cento – chiosa Arturo Parisi – Ancora una volta, come è sempre accaduto dalla sua nascita la Direzione del Pd si conclude in modo pressoché unanime quando il voto è palese. Ecco da dove vengono i franchi tiratori quando il voto è segreto”. Tra gli astenuti ci sono Civati, Bindi, Orfini, Sandra Zampa, Laura Puppato. Tra i contrari molti prodiani, tra cui Franco Monaco.

Bersani e Franceschini: “Non si possono ascoltare internet e la piazza”
Bersani conferma le dimissioni e neanche questa è una notizia, visto che le aveva annunciate subito dopo che il padre fondatore del partito Romano Prodi era stato impallinato da 101 franchi tiratori. “Si può dire – ammette Bersani – che le elezioni le abbiamo vinte o no ma alla prima prova non abbiamo retto e se non rimuoviamo il problema rischiamo di non reggere nelle prossime settimane e mesi. Insieme a difetti di anarchismo e di feudalizzazione si è palesato un problema grave di perdita di autonomia. Non si pensi che quanto successo sia episodio, c’è qualcosa di strutturale”. Ma nelle dichiarazioni che seguono non ci sono mea culpa. C’è la caccia alle responsabilità all’esterno. Si continua a difendere la strategia che ha avuto i risultati sotto gli occhi di tutti (cioè “rovinosa”, come l’ha definita Stefano Rodotà). Quindi abbasso le critiche, abbasso i social network.

La direzione ha applaudito Bersani che criticava “una deriva personalistica” del partito e invitava a credere nel Partito Democratico. “La metafora” della mancanza del rispetto del principio democratico interno, ha detto in direzione Bersani, “ce l’ha data Gherardo Colombo (che aveva detto di volersi iscrivere al Pd solo per bruciare la tessera, ndr) entro in uno spazio per mettere in luce la mia soggettività. E forse troveremo pure un circolo che gli darà la tessera. Oppure un parlamentare che prima di presentare gli emendamenti alla Finanziaria li mette su Facebook per avere suggerimenti”. Dario Franceschini la dice ancora più chiara e cioè che non si possono ascoltare né internet né le piazze: “Siamo davanti ad una scelta per la democrazia. Non abbiamo scelto Rodotà non perché non è un uomo della sinistra ma perché in un sistema non presidenziale decide il Parlamento, non la piazza. Mille, 5000 persone che impongono al Parlamento un presidente non va bene neanche se è San Francesco”. 

Il dibattito? “Governo più politico o meno politico?”
Alla fine ciò che resta è un dibattito sulla lana caprina. Al centro non c’è un confronto tra chi vuole e chi non vuole un governo insieme al centrodestra. Ma tra chi lo vuole più politico e chi meno. Franceschini è convinto che non si sta facendo “nessun governassimo o pasticcio: ma siamo a un bivio. Se usciamo dall’aggressività di un pezzo di Italia – ha proseguito – troviamo i problemi reali, come la Cig da rifinanziare o l’Iva che aumenta di un punto da luglio. O ci facciamo carico di un po’ di impopolarità anche nel nostro mondo o ci intimoriamo, inseguiamo e andiamo alle elezioni. E tanto Grillo e Berlusconi non hanno nulla da perdere”. Matteo Orfini prova a raddrizzare la mira: “Napolitano ha chiesto qualcosa, di assumersi una responsabilità, non di cederla a lui, come mi sembra sia il documento che viene proposto in direzione”. Ma appena Orfini parla di “paletti” nella delega a Napolitano la sala lo sovrasta con un brusio di scandalo.

Anna Finocchiaro intende galvanizzare: bisogna metterci la faccia, dice, “mettendo a disposizione proprie personalità, evitando un governo tecnico. E si lamenta perché “forse i gruppi dirigenti vanno anche minimamente tutelati: continuo a essere aggredita come Dario, Rosy e molti altri”. “Ci vuole un governo politico!” spinge il mancato presidente Franco Marini e Bersani gli fa complimenti pubblici: “Che non potesse essere un presidente della Repubblica non mi convincerete mai, dite quello che volete…”. Rosy Bindi vuole un governo “di scopo”, “del presidente”, con meno politici. Umberto Ranieri, più napolitaniano di Napolitano, è l’unico che lancia il nome di Matteo Renzi (che alla fine tramonta per primo). Francesco Boccia non vede vie di uscita: “Non possiamo più permetterci di restare in mezzo al guado con il Parlamento diviso in tre blocchi”. E quindi la soluzione è una: governare con Berlusconi.

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