Al quarto scrutinio delle votazioni per il Quirinale non cade solo Romano Prodi; vanno a fondo anche Pierluigi Bersani e dietro di lui tutto il Pd. Perché quello che non si nasconde più tra compagni di partito è che “la situazione ormai è invivibile” senza “un chiarimento congressuale” che potrebbe essere anche anticipato da una separazione: un’incrinatura che potrebbe cominciare prima del congresso aperto ormai di fatto dalle dimissioni di Bersani e di Rosi Bindi pochi minuti prima. Perché non è impossibile che una parte del centrosinistra e del Pd rinnovi il voto già espresso a Stefano Rodotà in segno di dissenso e rottura rispetto al possibile, e probabile, ripiegamento delle diverse componenti del Pd – dai “rottamatori” renziani ai dinosauri coi baffi dalemiani – su una figura come Giuliano Amato, sicuramente gradita al presidente uscente Giorgio Napolitano. Un nome, quello di Amato, che riporta automaticamente in auge anche quello di Massimo D’Alema. In partenza per un seminario del Pse “coi compagni cinesi”, l’ex segretario Pds starebbe però già approntando una dichiarazione per togliere d’ingombro la propria candidatura, a vantaggio piuttosto di quella di Emma Bonino, che “potrebbe raccogliere un’ampia maggioranza laica”. E sopratutto non significherebbe la vittoria né di Grillo né delle larghe intese col centrodestra. Alle larghe intese preluderebbe invece la candidatura di Piero Grasso, che lascerebbe libero lo scranno più alto del senato per il centrodestra.

Un centinaio i franchi tiratori interni al Pd, dunque. Chi sono i “colpevoli”? Ovviamente l’attenzione si appunta su gli ex popolari, intenzionati a rendere la pariglia per il siluramento di Franco Marini, e soprattutto sui dalemiani. Con gli spettri del 1998 a far da sfondo, l’ex premier rimprovera al segretario di non aver tenuto fede all’impegno di proporre il voto segreto ai grandi elettori, in modo così da pesare e far valere il proprio voto anche a favore di Prodi. Dalemiani e popolari non bastano comunque a fare la carica dei 101 che ha affondato Prodi. E anzi respingono ogni imputazione: da parte dalemiana ricordando di “aver sempre messo al primo posto il partito”, da parte popolare con Beppe Fioroni che ha fotografato il proprio voto per il professore. Tanto che le interpretazioni più maliziose imputano al sindaco di Firenze Matteo Renzi di aver fatto il doppio gioco. La solerzia con cui Renzi, dal suo ufficio di palazzo Vecchio, ha “rottamato” anche il nome di Prodi è infatti apparsa troppo tempestiva a molti. “Visto quanto ci ha messo?”, sibila qualche ex compagno di dc. 

Anche i renziani respingono però ogni addebito: “Quanto accaduto è anche un segnale contro Renzi”, afferma il fedelissimo Matteo Richetti. A dire il vero, al di là delle smentite del sindaco, bisogna segnalare che Prodi nelle dichiarazioni trapelate sui giornali di oggi se la prende con tutti ma non con Renzi.

E in effetti di vincitori non se ne trovano. La controprova la fornisce il fatto che la candidatura di Rodotà, che pure ha pescato consensi nel Pd, sia avversata tanta da Renzi che dalle altre componenti storiche popolari e dalemiana. I 5 stelle ovviamente rilanciano il nome dell’ex garante, su cui Sel è pronta a tornare. Tuttavia i grillini di premurano di restringere “le praterie” per la formazione di un governo “dei cittadini e non più dei partiti”, prospettate invece in caso di convergenza sul nome del professore dopo l’incontro mattutino coi capigruppo Roberta Lombardi e Vito Crimi. “Smettiamola con questo gioco, questa logica non mi appartiene”, replica Crimi ai cronisti che in serata ipotizzano aperture sul governo in caso di convergenza su Rodotà al Quirinale. Tra Pd e 5 stelle a diplomazia era ferma alla candidatura di Prodi, che i Pd speravano di potere perorare in vista del V scrutinio prima che i franchi tiratori facessero en plein.

“Su Rodotà non possiamo convergere, e nemmeno sulla Cancellieri”, rileva dunque Pippo Civati. Anche se forse è proprio tra questi due nomi che si svolgerà la corsa al Quirinale. L’ex garante ha ben pescato nel Pd per arrivare a quota 213 (oltre i 163 voti a 5 stelle); e prima era arrivato fino a quota 250. In prospettiva anche Prodi potrebbe indicare il suo nome per rappresaglia nei riguardi dei franchi tiratori; se non altro in ragione del fatto che rappresenta senz’altro l’alternativa a qualunque ipotesi di convergenza tra Pd e Pdl. Ma a maggior ragione perciò quella di Rodotà rappresenterebbe la vittoria di Beppe Grillo. E “una vittoria così di Grillo non la vogliono né Renzi né D’Alema”, fanno sapere quasi all’unisono da Firenze a Shangay, passando per Roma.

Chiamandosi fuori anche D’Alema, rimangono perciò Amato, Grasso e Bonino. Il primo può contare sui buoni uffici del presidente uscente, ma tanto lui quanto Grasso rappresenterebbero quelle larghe intese col Pdl che già hanno fatto sollevare la base e deflagrare il vertice del Pd. A quel punto Emma Bonino rimane come la prospettiva meno dolorosa.

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