Lo premetto a scanso di pretestuosi equivoci: a me Romano Prodi sta simpatico. Del resto abitiamo nella stessa città e la sua bonomia emiliana è una delle caratteristiche dei miei concittadini che più apprezzo.

Non vorrei però che lo considerassimo come un “innocuo signore anziano”, che unisce perché anestetizza, grazie a un flebile tono di voce. Ha una storia politica, ha avuto responsabilità di governo, ha compiuto scelte che hanno nuociuto e nuocciono ancora a questo paese, prima fra tutte lo scellerato patto coi clericali, i cui esiti legislativi si misurano in: a) finanziamenti pubblici alle scuole private religiose; b) assenza di riconoscimento di diritti individuali e civili per le persone e le coppie omosessuali.

Scegliere oggi Prodi – senza aver spiegato perché “no” Stefano Rodotà – significa riportare indietro l’Italia di vent’anni, al 1996.

Significa non comprendere che nel paese è maturata prepotentemente un’esigenza di laicità delle Istituzioni che – a questo punto occorre rinfrescare la memoria a tutti i parlamentari del Pd e di Sel – è principio fondante della nostra Costituzione.

Significa non comprendere la profonda secolarizzazione della società italiana.

Significa, in definitiva, vivere in un mondo separato dalla realtà, dove la richiesta di diritti diventa una variabile secondaria nel reality show d’un Partito Democratico nato morto e che, mortalmente, paralizza le capacità di decisione a causa dei suoi problemi irrisolti. Primo fra tutti il suo clericalismo.

Questo è il problema, che l’elezione di Prodi non risolve, bensì prolunga per un ulteriore pesante settenato.

Prodi? Abbiamo già dato, no grazie.

Lo scrivo anche in inglese, data la “caratura internazionale” del personaggio: Not in my name.

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