Era un supplizio cinese, un gioco complicato di schede bianche, o a volte dirottate su candidature di comodo perché si perdessero le tracce dei franchi tiratori”. Così Giovanni Leone, candidato della Democrazia cristiana poi battuto da Giuseppe Saragat, rievocherà il tradimento dei suoi amici che nel 1964 l’hanno mandato allo sbaraglio nella corsa al Quirinale. Anche stavolta, come sempre tranne che nel 1962 con Segni, la Dc è costretta a cambiare cavallo a metà corsa. Ma andiamo con ordine.

Dopo la lunga infermità, Antonio Segni ha avuto finalmente il permesso di dimettersi. E l’ha fatto il 6 dicembre. Candidato ufficiale dello Scudocrociato è, appunto, il presidente della Camera Giovanni Leone, che la spunta sul solito Fanfani, su Scelba e su Giulio Pastore. Psi, Pri e Psdi ripropongono, come due anni prima, il fondatore del Partito socialdemocratico Giuseppe Saragat. Torinese, 67 anni, figlio di immigrati sardi, socialista riformista turatiano fin dal 1922, esiliato in Svizzera, Austria e Francia durante il fascismo, rientrato e arrestato dai nazisti nel 1943, presidente della Costituente nel 1946, ha avuto il coraggio di opporsi al fronte socialcomunista e a promuovere nel 1947 la scissione del Psi a Palazzo Barberini, appoggiando l’adesione dell’Italia alla Nato e al Piano Marshall, diventando la bestia nera dei comunisti che lo trattano da traditore al soldo degli americani.

Ora però, siamo alla fine del 1964, da quello strappo dilaniante sono trascorsi quasi vent’anni: tant’è che anche l’ala destra del Pci – che fa capo a Giorgio Amendola – è disposta a votare per Saragat al Quirinale, mentre la sinistra di Mario Alicata e Pietro Ingrao preferirebbe Fanfani, fautore di un’interpretazione “progressista” del centrosinistra. Il Pli si isola attorno al suo candidato di bandiera, Gaetano Martino, già ministro degli Esteri di De Gasperi. Questi gli schieramenti ai blocchi di partenza quando, il 16 dicembre, le Camere cominciano a votare.

Il supplizio cinese di Leone

Nei primi quindici scrutini Leone sale, scende, recupera, ridiscende. È il suo “supplizio cinese”, orchestrato da dietro le quinte a suon di franchi tiratori da Carlo Donat Cattin, da Ciriaco De Mita e dal solito Fanfani. Per convincere l’Amintore a sbloccare lo stallo, deve scendere in campo papa Paolo VI, con una lettera del direttore dell’Osservatore Romano Raimondo Manzini: “Quassù – gli scrive Manzini – si desidera vivamente una rinuncia per il bene maggiore”. Nella successiva votazione, per tutta risposta, tre anonimi fanfaniani scrivono provocatoriamente sulla scheda il nome di Ludovico Montini, fratello del Papa e senatore Dc. Gli altri votano scheda bianca. E Leone, esasperato, si ritira. È il 24 dicembre. Per la prima volta nella sua storia centenaria, il Parlamento italiano apre i battenti anche il giorno di Natale. E in piazza Montecitorio la folla rumoreggia: corre voce che là dentro la tirino tanto alle lunghe perché è previsto un gettone di presenza di 50 mila lire al giorno. Non è vero, ma fa lo stesso.

In attesa di trovare l’intesa su un nuovo candidato, i democristiani si accordano per astenersi: sfilano in 368 davanti all’insalatiera di vimini verde-oro pronunciando la parola “astenuto”, mentre dall’emiciclo piovono i “vergognatevi!” delle sinistre. Nella notte, all’ennesima riunione di partito, volano parole grosse: da una parte i fanfaniani e forzanovisti di Donat-Cattin, che puntano a un’intesa con le sinistre; dall’altra i centristi di Scelba e la destra di Andreotti, che si oppongono a ogni cedimento verso i comunisti. La battaglia si chiude con un fumoso documento che pare orientato verso Saragat, ma non lo nomina mai, e men che meno indica la maggioranza che lo dovrà sostenere. Ormai siamo alla pochade: infatti, l’indomani, è l’ennesima fumata nera. E anche il fronte saragattiano sembra sfarinarsi, con un numero sempre maggiore di socialisti che si uniscono al Pci nel votare Pietro Nenni. Saragat si ritira, ma per ripresentarsi l’indomani.

Disperato, il segretario del Psdi Mario Tanassi va a chiedere i voti di Botteghe Oscure. Luigi Longo dice di sì, ma pretende un appello pubblico ed esplicito: “I voti ve li diamo se ce li chiedete ufficialmente”. Sembra fatta, anche perché Saragat ha già in tasca i voti del Psi, dopo un incontro strappalacrime con Nenni. Ma deve stare attento a non indispettire la Dc moderata. Così s’inventa una dichiarazione che è un capolavoro di dico-non dico: “Ho posto per la seconda volta la mia candidatura a presidente della Repubblica e mi auguro che sul mio nome vi sia la confluenza dei voti di tutti i partiti democratici e antifascisti”. In pratica del nascente “arco costituzionale”. In quel “democratici” sono compresi o no i comunisti? Per la Dc esclusi, per il Pci compresi. Ma a Rumor, segretario Dc, e a Longo va bene così. Così il 28 dicembre, al ventunesimo scrutinio, Saragat viene finalmente eletto quinto presidente della Repubblica Italiana, con 464 voti su 927: quelli di tutti i partiti, eccetto Pli, Msi e un manipolo di cecchini. Lapidario il commento del Time di Londra: “Hanno scelto l’uomo migliore nel peggiore dei modi”.

Saragat il giorno fatidico lo trascorre barricato in casa fin dal mattino con la figlia Ernestina, unica compagna della sua vita dopo la morte della moglie Giuseppina. E, dopo l’annuncio ufficiale, si mette subito a scrivere il discorso d’insediamento. Un discorso dignitoso: “So che gli unici titoli che mi hanno raccomandato ai vostri suffragi sono le convinzioni democratiche e un passato di militante per la libertà. Cercherò di esser degno del vostro voto”. Poco dopo, però, tesse le lodi del centrosinistra: un’intromissione bella e buona nella politica attiva. Ma i partiti maggiori non trovano nulla da ridire. E nessuno, escluse le destre, protesta.

Il fatto di averlo votato non impedirà però ai comunisti di risfoderare le loro vecchie ruggini contro l’uomo di Palazzo Barberini, il socialista filoamericano, sprezzantemente dipinto come “socialfascista”, “socialtraditore”, “rinnegato”. Il tutto condito con pesanti battute sul suo trasporto per gli alcolici (Pinot Barbera, lo chiama qualcuno nel suo Piemonte). In un’unica occasione il Pci starà dalla sua parte: quando il presidente concederà la grazia a un criminale della guerra partigiana, Francesco Moranino, tra le violente polemiche del centrodestra. Qualcuno arriverà a insinuare che quello fosse il prezzo pagato per l’appoggio comunista alla sua scalata al Colle. In politica estera, Saragat si conferma un leale alleato del fronte atlantico, anche se una sua strigliata al presidente Usa Lyndon Johnson su “questa guerra del Vietnam che dura troppo a lungo e che dovete chiudere” viene accolta con fastidio alla Casa Bianca.

Sul fronte interno, sono anni terribili: il Sessantotto, le violenze di piazza, le prime bombe, la strategia della tensione che qualche dietrologo vorrebbe far risalire addirittura a lui. Intanto, il centrosinistra sta tramontando per colpa dei socialisti, che alzano continuamente la posta invocando “equilibri più avanzati” (verso il Pci) e della sinistra Dc ora capitanata da Moro, mollemente rassegnato all’abbraccio più o meno lontano con i comunisti. In questi giochi di palazzo Saragat mette spesso lo zampino, patrocinando dal Colle – con interventi ai limiti della Costituzione – la riunificazione socialista. Che però durerà l’espace d’un matin. Per non finire stritolati nell’abbraccio mortale Psi-Pci, i socialdemocratici faranno ben presto marcia indietro. Si dirà che, nei giorni burrascosi della contestazione e degli scontri di piazza , Saragat accarezzasse addirittura il proposito di improvvisarsi come “il De Gaulle italiano” con un pronunciamento per la Repubblica presidenziale, sul modello appena adottato in Francia dal generale suo idolo. Ma che i consiglieri l’avessero convinto a soprassedere.

Disse: Moro è come le monache

Caparbio e testardo, ma schietto e sincero, pane al pane e vino al vino (soprattutto vino, direbbero i maligni), Saragat detesta il linguaggio alla vaselina tanto caro ai democristiani. Quando Moro, per non urtare i comunisti, evita accuratamente di nominare in pubblico l’Alleanza atlantica (limitandosi a parlare della “nostra collocazione internazionale”), monta su tutte le furie: “Moro mi ricorda le monache di un tempo, che per non nominare certe parti del corpo le chiamavano pudende”. Si deve a lui se il messaggio di Capodanno diventa, da un rituale e burocratico augurio agli italiani, una sorta di “discorso della corona” o “del caminetto”, con il bilancio dell’attività politica dell’anno passato e gli incoraggiamenti e i suggerimenti presidenziali per i mesi a venire. Particolarmente significativo quello pronunciato da Saragat il 31 dicembre 1970, a pochi mesi dalla scadenza del suo mandato. Qualche giorno prima, Ugo La Malfa ha invitato il presidente a dimettersi in anticipo, per non incrociare il semestre bianco con le elezioni politiche e non paralizzare per un anno la vita politica sulla scadenza quirinalizia. L’idea a Saragat – che tra l’altro spera di essere rieletto – non piace per nulla. E lo dice in tv: “Italiani, questo è l’ultimo discorso di fine anno che io rivolgo a voi nel corso del mio settennato, che avrà termine il 29 dicembre 1971…”. E non un giorno di meno. La Malfa, tiè.

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