Pubblico con onore sul mio blog il pezzo di Alessio Altichieri: vita, opere e ossessioni della Thatcher –  un pezzo di giornalismo illuminante:

Margaret Thatcher, la donna che inventò la politica che ancora marchia i nostri anni, è morta ieri a 87 anni, nella sua casa di Chester Square, a Londra, dopo l’ultimo ictus della lunga serie che da anni l’aveva lasciata ammutolita, chiusa nella demenza senile a cui diede il volto, in “The Iron Lady”, Meryl Streep. Per riassumere una figura che ha segnato i nostri tempi, un giornale la definisce “un fenomeno”. Più preciso, con parole studiate, David Cameron dice che nel secolo scorso fu “il più grande primo ministro britannico in tempo di pace”, con ciò accostandola, solo uno scalino sotto, a Winston Churchill. E tale l’establishment, che s’aspettava la notizia, la vuole ricordata: non avrà funerali di stato, come Churchill, ma almeno una cerimonia con onori militari, come la principessa Diana e la regina madre, nella cattedrale di St. Paul. L’Inghilterra, d’un tratto, sente l’eco della storia, Cameron rientra dall’estero, Downing Street espone l’Union Jack a mezz’asta. Per qualche giorno, Londra sarà ancora il centro del mondo.

Margaret Hilda Roberts, in Thatcher, era un campione dell’individualismo, dell’antica fiducia in se stessi celebrata nel “Robinson Crusoe” di Defoe, che aveva respirato, così narra la leggenda, nella bottega di droghiere del padre, a Durham, nel Lincolnshire, dov’era nata nel 1925. Sarà, ma certo la ragazza aveva grinta se a 17 anni vinse un posto a Oxford per studiare chimica, a 26 sposò Denis Thatcher, un simpatico divorziato, a 28 mandò dall’ospedale, dove aveva partorito i gemelli Mark e Carol, l’ultima tesi per la laurea in legge e a 33, tra lo sbalordimento generale (“Una donna, così giovane!”), entrò ai Comuni, eletta a Finchley. Sempre sottovalutata in quanto donna, ma già fenomeno, nel 1974, sottosegretario nel governo Heath, compì il gesto, abolendo la tazza di latte quotidiana a tutti gli scolari del Regno Unito, che avrebbe definito la sua politica: basta con il consenso collettivista che, dal dopoguerra, dominava in Gran Bretagna. L’anno dopo, quasi in mancanza di meglio, sostituiva Heath alla guida dei conservatori.

Ci si chiede se, giunta alla guida del governo nel 1979, la Thatcher avesse già chiaro il suo programma. Forse non i mezzi, certo il fine: basta con il socialismo strisciante, basta con l’egalitarismo, basta col mito del pieno impiego e con l’economia di stato che tutto governa, dal carbone ai treni. Ma partì lentamente, scegliendosi i nemici a uno a uno, e solo nel 1982, cogliendo l’opportunità offerta dalla dittatura argentina con l’invasione delle Falklands, riconquistate senza pietà, vinse la popolarità del premier guerriero e, rieletta l’anno dopo, pieni poteri. Cominciò così le privatizzazioni, che non salvarono alcuna industria: energia, acciaio, telecomunicazioni, British Leyland, British Airways, e così via. Abolì il controllo sui cambi, vietò gli scioperi per alzata di mano e istituì il voto segreto preventivo. Con i proventi del petrolio estratto nel Mare del Nord, abbassò le tasse: molto per i ricchi (dall’82 al 40 per cento), ma anche per i poveri.

I sindacati, ormai in difesa, furono schiantati nella lunga battaglia contro i minatori. Anni di fuoco: il “Sun” di Rupert Murdoch difendeva la Thatcher come una Giovanna d’Arco, la maggioranza la sosteneva, la minoranza l’odiava: intanto l’Inghilterra cambiava. Perché lei interpretava la nuova classe emergente, la classe media borghese, che non sopportava più i privilegi aristocratici, le pastoie dell’establishement, i paludamenti della chiesa anglicana, i “closed shops” che limitavano l’accesso alle professioni, o le assunzioni operaie nell’industria. Quello che molti dicevano, solo la Thatcher ebbe il coraggio di fare.

Naturalmente, fuori dal Regno Unito, già chiamata Lady di Ferro, combatté la battaglia contro il collettivismo che s’incarnava nel comunismo: capì subito che quello strano russo, Gorbaciov, era uno con cui si potevano “fare affari”. Sottobraccio a Ronald Reagan, e in sintonia con Giovanni Paolo II, diede i colpi finali all’Unione Sovietica. Bastino due date: nel giorno di Natale del 1979, appena eletta, apprese che Mosca aveva invaso l’Afganistan, ma dieci Natali più tardi, nel 1989, ormai a fine carriera, vide cadere il muro di Berlino. E il successo le diede alla testa: istituendo la poll tax, che tassava ricchi e poveri allo stesso modo, diede ragione ai suoi nemici. O, preferendo l’apartheid a Nelson Mandela, che definì “terrorista”, alimentò il sospetto che il suo anticomunismo non facesse rima con democrazia. In Europa, poi, diventò acida e inaugurò l’euroscetticismo, che è la sua eredità più velenosa. Ciò che dimostra come, nel bene e nel male, con la baronessa Thatcher, morta ieri a Londra, dovremo ancora fare i conti.

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