Un piccolo tassello della tragedia del Moby Prince torna al suo posto dopo 22 anni. Una storia nota eppure ignorata, da sempre nel fondo dei cassetti della memoria. Quel traghetto – era il 10 aprile 1991 – finì contro una petroliera, l’enorme Agip Abruzzo, a poche miglia dal porto e dagli scogli di Livorno: morirono 140 persone a bordo del Moby. Tutti tranne uno (il mozzo, Alessio Bertrand) che si salvò, ma che è difficile ritenere veramente salvo: non si è mai ripreso dallo shock.

Il punto non più oscuro, dunque, è che Theresa – la nave che in tutta fretta, mezz’ora dopo la collisione, si allontanò dalla rada del porto di Livorno – ha finalmente un’identità. Era quasi certamente una nave militarizzata americana, la Gallant II, una di quelle che in quei giorni che seguirono la fine della prima guerra del Golfo trasportavano armi a Camp Darby, a pochi chilometri dalle banchine livornesi. Ma allora perché usò quel nome in codice, Theresa? Perché si allontanò in tutta fretta? Il comandante e l’equipaggio di quella nave potevano dare elementi importanti alla Procura di Livorno che ha indagato e archiviato per due volte in vent’anni?

La controinchiesta voluta dai figli del comandante
A gettare questo punto di luce su una vicenda da sempre alle prese con coni d’ombra è una controinchiesta condotta da due anni dallo studio di ingegneria forense Bardazza di Milano, al quale si sono affidati Angelo e Luchino Chessa, figli di Ugo, il comandante del Moby Prince. I Chessa non si sono mai rassegnati all’idea che l’unica responsabilità fosse addebitata al capitano del traghetto che in quel fiume di fuoco e fumo perse la vita e la moglie partita con lui.

Se la verità giudiziaria di quanto accadde di fronte al lungomare livornese quella sera è barcollante, lo è ancora di più quella storica. E per questo Angelo e Luchino Chessa, dopo l’ennesima delusione di un’inchiesta bis finita come la prima (cioè con zero colpevoli per 140 morti), ci vogliono riprovare.

Il lavoro di Bardazza e dei suoi collaboratori – iniziato poco più di due anni fa – sta mettendo a frutto, grazie alle nuove tecnologie a disposizione, ciò che negli atti processuali era già indicato da anni. Come una enorme lente di ingrandimento utilizzata per scovare dettagli finora inesplorati e che potrebbero gettare nuova luce sul più grande disastro della marineria civile italiana.

Theresa, la nave fantasma
Il primo tassello che torna al suo posto, quindi, è Theresa. Il mistero della nave fantasma sembra essere definitivamente svelato. “Dalle nostre comparazioni – spiega Gabriele Bardazza, uno degli ingegneri che si stanno occupando del caso – si evince che Theresa è il Gallant II, una delle navi militarizzate che quella notte erano impegnate nel trasporto di armi presso la base di Camp Darby. Resta da capire il motivo per cui il comandante abbia ritenuto di non utilizzare via radio il proprio identificativo ma un nome in codice,perché non abbia usato il normale canale radio, come resta da spiegare il fatto che i periti del tribunale non si siano mai preoccupati di analizzare a fondo le registrazioni per chiarire chi fosse Theresa, nonostante nel processo di questa nave fantasma si sia parlato a lungo”. Il lavoro di ottimizzazione del suono su quelle registrazioni ha permesso di dare un nome a quella voce: quella del comandante greco della nave militarizzata statunitense Gallant II, il capitano Theodossiou. Se l’avessero scoperto in tempo i magistrati la sua testimonianza avrebbe potuto cambiare qualcosa?

I misteri di Theresa
Theresa dette notizia di sé alle 22,49, 35 minuti dopo la collisione tra il Moby Prince e l’Agip Abruzzo. “This is Theresa, this is Theresa for the ship one in Livorno anchorage, I’m moving out, I’m moving out!”. Theresa chiama la nave uno all’ancora nella rada di Livorno, mi allontano, mi allontano. La Procura non riuscì mai (né nella prima né nella seconda inchiesta) a capire da dove venisse quella voce registrata sul canale 16 d’emergenza di Livorno Radio. Né a individuare Theresa e “ship one”. L’unica certezza che arrivò dai pm è in nessuno dei due casi si trattava della 21 Oktobar II, il peschereccio che fece parte della flotta della Shifco, coinvolto in un presunto traffico illecito di armi tra l’Italia e la Somalia, al centro delle inchieste di Ilaria Alpi, poi uccisa con il cameraman Miran Hrovatin. Il 21 Oktobar  IIrimarrà sempre ormeggiato alla banchina “Magnale”, secondo i magistrati, senza la possibilità (strutturale) di navigare.

La collisione? “Perché il traghetto stava rientrando in porto”
C’è di più. C’è che dettagli finora poco esplorati danno la certezza che la Agip Abruzzo non era affatto ancorata fuori dalla rada. Circostanza meno banale di quanto possa sembrare. Non è solo una questione di “divieto di sosta”. Non c’entra il fatto che il Moby poteva evitare, grazie al radar, l’impatto.

Il fatto che la petroliera fosse alla fonda all’interno del triangolo in cui sono vietati ancoraggio e pesca (per permettere il transito delle imbarcazioni in entrata e in uscita dal porto) dimostrano, dice Bardazza, “che il traghetto è finito addosso alla petroliera non durante l’uscita dal porto ma durante una rotta di rientro“. E allora, di nuovo: perché il traghetto – appena partito per Olbia – avrebbe dovuto fare un’inversione a U per tornare nel porto di Livorno?

Un ulteriore dettaglio – quello della posizione della Agip Abruzzo – che rafforzerebbe questa tesi è il fatto che proprio il comandante della petroliera, Renato Superina (nel frattempo scomparso) alla radio, rivolto ai soccorritori, dice: “Stiamo suonando la sirena! Solo che non ci sentite perché abbiamo la prua a sud…”. Ma con la prua a sud sarebbe stato impossibile che il Moby si schiantasse sul lato dritto (destro) dell’Agip, com’è avvenuto. Quindi, verosimilmente, lo scontro è avvenuto mentre il traghetto stava rientrando in porto. Accadde qualcosa di anomalo quella notte a Livorno che innescò un caos tragico, come dimostrano anche le concitate conversazioni radio dei soccorritori. Quello dei soccorsi, peraltro, è un altro capitolo ormai certo di quella vicenda, l’unico senza ombre: “Fu una baraonda straordinaria” disse il procuratore capo Francesco De Leo nel 2010 quando chiuse l’inchiesta. Ma ormai tutto era prescritto.

I tempi di resistenza a bordo: le impronte delle mani sulle auto
D’altra parte un altro elemento mai chiarito è sempre stato quello dei tempi di resistenza a bordo: poche manciate di minuti per i periti degli inquirenti, molto di più per i familiari. Il lavoro degli esperti si focalizza sulle impronte delle mani sulle carrozzerie carbonizzate dei veicoli nel garage del traghetto. Secondo la procura livornese furono lasciate dai soccorritori nelle ore successive all’incendio, ma un video dei vigili del fuoco girato durante il primo accesso a bordo dimostrerebbe che le impronte erano già ben visibili (foto in alto).

Chessa: “Non vogliamo colpevoli a ogni costo, solo riscrivere la verità”
Un buco nero che ora può essere colmato perché, è il senso del lavoro degli esperti, le nuove tecnologie permettono di avere informazioni in più su fatti già documentati dagli atti giudiziari. “Mi aspetto che questo Paese – dice Angelo Chessa – abbia ancora voglia di capire come sia stata possibile una tragedia simile. E che le istituzioni facciano qualcosa per rintracciare questo comandante e farsi spiegare perché decise di andarsene in tutta fretta dalla scena della collisione. La scoperta della sua identità ci conferma la presenza di strani traffici in porto. Noi non vogliamo colpevoli a ogni costo, ma riscrivere la verità dei fatti”.

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