Ha una voce morbida, carezzevole e decisa al tempo stesso, ventitré anni appena ma un curriculum artistico già degno di rispetto, assieme ad un posto di primo piano in quella prestigiosa e fortunata scuderia della musica italiana che è la Sugar di Caterina Caselli. Erica Mou, al secolo Erica Musci da Bisceglie, Bari, si è fatta notare lo scorso anno a Sanremo, quando conquistò il secondo posto della classifica di Sanremo Social (dedicata agli esordienti) ma si portò a casa il Premio Mia Martini e quello Sala Stampa Radio Tv. E si sa che non arrivare primi a Sanremo porta piuttosto bene. Mercoledì 27 marzo sarà in concerto al Teatro Comunale Bibiena di Sant’Agata Bolognese. “Una data fuori dal tour di È, il mio ultimo album” ci racconta Erica “in occasione della Giornata Mondiale del Teatro. In questo periodo sto ultimando la registrazione del nuovo cd, ma ci tenevo ad esserci. Sarà un concerto particolare, in cui esibirò miei pezzi ma pure omaggi a cantautori della mia Puglia, da Modugno a Matteo Salvatore, un altro grande della musica popolare della mia terra”.

Quest’anno hai mancato l’appuntamento di Sanremo, risparmiandoti quindi la consueta ridda di polemiche, contestazioni, bocciature e incensamenti. Tu che ricordo conservi dell’esperienza dell’Ariston?

Io credo che, al di là delle critiche positive o negative, Sanremo sia anzitutto un contenitore talmente eterogeneo da soddisfare un po’ tutti i palati. Personalmente l’ho amato fin da bambina, in fondo resta una vetrina importante e soprattutto un’occasione irrinunciabile che si offre ad un esordiente per proporsi al grande pubblico: è innegabile che ad un musicista serva, eccome.

Nel 2010 hai partecipato con un tuo brano alla compilation La leva cantautorale degli anni zero, con molti giovani artisti che si stanno facendo strada nel panorama della musica indipendente italiana: Nobraino, Dente, Brunori sas per citarne alcuni. Ma non ci trovi una contraddizione nel fatto che la musica cosiddetta indie, refrattaria a classificazioni, si sia in qualche modo trasformata in un genere?

Certo, è il rischio che si corre, quello della cristallizzazione, ogni volta che una realtà artistica viene definita. Personalmente non amo la chiusura di alcuni ambienti musicali, un certo snobismo che sembra dover essere un marchio di fabbrica, o di genere appunto. Per me la musica è anzitutto apertura, incontro, al di là di qualsiasi tentativo di definizione.

Hai avuto molte esperienze al di fuori dell’ambito prettamente musicale: cinema, teatro, pubblicità. Anche i musicisti sembra debbano in qualche modo rispondere alla flessibilità del mercato.

Sì, in una certa maniera è vero. E’ senza dubbio stimolante entrare in contatto con ambiti creativi differenti, senza contare il fatto che è curioso vedere come emergano da un brano aspetti che non si notavano prima, nell’impatto ad esempio con le immagini di un film o nel breve spazio di uno spot. Senza dubbio per me che adoro il cinema sentirmi in dolby surround (nel film di Roberta Torre I baci mai dati, presentato all’ultimo Festival di Venezia, ndr)è stata un’esperienza straordinaria. E comunque non va dimenticato che io sono nata nel pieno della crisi del mercato discografico, e l’aspetto economico non è certo di importanza secondaria…

Wikipedia definisce la tua musica “folktronica”: ti ci riconosci?

(Ride, ndr) Veramente non so nemmeno cosa voglia dire!

Quali sono le artiste che tieni come modello di riferimento?

Quando ero piccola avevo una vera e propria venerazione per Mia Martini, poi ho scoperto le grandi cantautrici degli anni Sessanta e Settanta: Joan Baez, Joni Mitchell, Janis Joplin… Negli ultimi anni ho scoperto PJ Harvey, della quale ammiro la capacità di essersi saputa rinnovare ad ogni nuovo disco. Tra le mie (quasi) coetanee invece mi piacciono molto Corinne Bailey Rae e KT Tunstall.

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