Il rapporto tra Joseph Ratzinger e Jorge Mario Bergoglio è sintetizzato da due numeri: 72 e 40. Sono i voti che i due candidati più forti alla successione di Giovanni Paolo II ottennero alla terza votazione, la penultima, del conclave del 2005. Ratzinger, che al quarto scrutinio sarebbe stato eletto con 84 voti, sfiorò per soli 5 suffragi la soglia delle 77 preferenze sufficienti e necessarie per la fumata bianca. Bergoglio, unico vero contendente di Ratzinger per la successione a Karol Wojtyla fin dalla prima votazione, ottenne un numero talmente alto di voti da consentirgli di sbarrare la strada dell’elezione al “custode della fede” del Papa polacco.

Da un punto di vista meramente matematico, infatti, 40 voti sono superiori a un terzo dei votanti del conclave del 2005, ovvero 115 cardinali, e avrebbero potuto impedire a Ratzinger di essere eletto, ovvero di ottenere almeno i due terzi necessari per l’habemus Papam. Difficile immaginare che, in quelle pochissime ore che separavano la terza dalla quarta votazione, Bergoglio avrebbe chiesto ai suoi sostenitori di votare Ratzinger e di chiudere così rapidamente il conclave. E così fu. Dopo otto anni di pontificato di Benedetto XVI la storia della Chiesa riparte proprio da quell’elezione.

Il numero due del conclave del 2005 diviene Papa con una “stragrande maggioranza”, secondo quanto affermato dal cardinale Giovanni Battista Re, colui che ha guidato i porporati durante le votazioni nella Cappella Sistina. Si parla di una novantina di voti per Bergoglio, con un incremento leggermente superiore rispetto ai suffragi che ebbe Joseph Ratzinger.

Oggi che entrambi sono Papi, uno emerito a Castel Gandolfo e l’altro regnante in Vaticano, c’è chi ancora non si spiega, anche all’interno del Collegio Cardinalizio, perché Bergoglio non fu scelto direttamente otto anni fa. Già nei primissimi passi di Papa Francesco iniziano a emergere affinità e differenze con il suo diretto, e vivente, predecessore.

Mite e timido Ratzinger, energico e carismatico Bergoglio. Gli abiti da museo ripresi da Benedetto XVI in contrasto con la semplicità delle vesti di Francesco che rifiuta continuamente gli orpelli anacronistici del vestiario papale che fu e persino la croce d’oro “d’ordinanza”. Le scarpe cremisi della “divisa” ufficiale pensionate rapidamente con un gesto pontificio inequivocabile e sostituite con le semplici e consumate scarpe nere di Bergoglio. Il rispetto ossequioso del protocollo osservato da Benedetto XVI contro la costante rottura di ogni barriera formale di Papa Francesco. La liturgia “slow” di Ratzinger, ricca di canti e di pause di adorazione, condita da paramenti risalenti a Pio IX, e quella “fast” di Francesco che semplifica e rafforza i riti e sceglie, come Giovanni Paolo II, di celebrare la Messa con le vesti sacre di un semplice prete e con la sua mitria, il copricapo dei vescovi, personale, rifiutando le versioni gemmate e ricche di orpelli preziosi.

Le lunghe omelie di Benedetto XVI, ricche di citazioni di padri della Chiesa e di documenti del magistero, sostituite in un colpo da brevissime pillole catechetiche, della durata di sei, massimo sette, minuti, con un messaggio semplice e diretto ai fedeli tratto da una pagina evangelica. Da un pontificato fatto di lezioni e di libri, a uno incarnato in una gestualità forte in cui la parola scritta fa spazio all’abbraccio caloroso del “parroco del mondo” che preferisce gli ultimi ai capi di Stato e di Governo. Francesco, lo si è capito ascoltando il suo primo messaggio ai fedeli, più che Sommo Pontefice si sente un vescovo che vuole camminare con il suo popolo. E da qui si può intuire facilmente che la collegialità episcopale sarà sicuramente il suo metodo di governo della Chiesa.

Quella collegialità che è mancata, forse inaspettatamente, durante il pontificato di Benedetto XVI, anche per colpa di alcune scelte infelici come quella del suo segretario di Stato, Tarcisio Bertone, accentratore di potere oltre ogni immaginazione. Una collegialità che vuole essere condivisione di problemi gravissimi che affronta la Chiesa oggi. In primis la vicenda Vatileaks, che non può essere considerata conclusa con la grazia papale all’ex maggiordomo di Ratzinger, Paolo Gabriele, e la rinuncia al pontificato di Benedetto XVI, ma che forse è solo all’inizio per l’annidamento cospicuo di corvi e lupi nella Curia romana e per la presenza di lobby, omosessuali e religiose, legate a doppio filo da interessi carrieristici e finanziari. Oltre Vatileaks c’è sicuramente il problema della pedofilia ecclesiale che non può essere banalmente archiviato come una campagna di stampa diffamatoria nei confronti di Benedetto XVI. La sporcizia della Chiesa è da sempre sotto gli occhi di tutti e in particolare sotto quelli di Ratzinger.

Ma c’è anche un altro aspetto legato alla collegialità totalmente disatteso dal Papa tedesco nei suoi otto anni di regno ed è quello delle nomine episcopali e della rimozione dei vescovi. Quanti errori in questo ambito sono stati registrati sotto il governo di Benedetto XVI. Negazionisti o collaborazionisti con regimi dittatoriali si sono visti premiati della fiducia del Papa. Salvo poi, in un secondo e tardivo momento, correre ai ripari. È stato ancor più grave quando a essere scelti sono stati vescovi collusi con la pedofilia. Mentre Benedetto XVI cercava di indicare la strada chirurgica per intervenire in tale piaga, il suo staff rendeva vano il suo magistero scegliendo uomini inadatti per guidare una Chiesa particolare. A Papa Francesco i cardinali elettori chiedono di invertire tale rotta. La prova importante sarà quando, nei prossimi mesi, all’interno delle mura della Città leonina, a pochi passi di distanza, vivranno i due Pontefici, con il rischio molto concreto di una “sconfessione in vita” di Ratzinger dovuto all’operato di Bergoglio.

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