Molti simboli. Pochi fatti. Potrebbe essere riassunto così il viaggio di Barack Obama in Israele – insieme a Territori Palestinesi e Giordania – che inizia tra poche ore. Lo staff del presidente ha fatto in modo di abbassare il più possibile il livello delle aspettative. “La sua visita non fissa nuove iniziative o completa il lavoro su una certa questione”, ha detto il viceconsigliere alla Sicurezza Nazionale, Ben Rhodes. Coerentemente con questa premessa, gran parte delle occasioni pubbliche in cui Obama si troverà saranno celebrative, formali: un omaggio alla tomba del fondatore del moderno sionismo, Theodor Herzl; una visita ai Rotoli del Mar Morto; una fermata a Betlemme. A differenza dei suoi due predecessori alla Casa Bianca, Obama non parlerà alla Knesset, preferendo piuttosto rivolgersi ai giovani israeliani in un Convention Center di Gerusalemme.

“Mister Obama potrebbe essere il primo presidente Usa in carica a visitare Israele come turista”, ha ironizzato Thomas Friedman sul New York Times. In effetti, la visita si colloca in un momento particolarmente vuoto quanto a progetti e prospettive politiche: nessun nuovo piano per riportare israeliani e palestinesi al tavolo delle trattative; nessun incremento significativo negli aiuti all’Autorità Palestinese; nessuna reale strategia per affrontare il caos in Siria; nessun discorso di portata storica, come quello che Obama fece al mondo musulmano durante la visita al Cairo del giugno 2009. Il fatto stesso che il nuovo governo israeliano – il terzo guidato da Benjamin Netanyahu – si sia costituito soltanto da poche ore e abbia al proprio interno alcune tra le voci più intransigenti del mondo dei coloni non promette nulla di buono sul fronte dei possibili risultati di una nuova iniziativa Usa.

Non è quindi sorprendente che la Casa Bianca punti in basso, molto in basso, per evitare il boomerang della inevitabile delusione – e del senso di sconfitta – che prenderebbe l’opinione pubblica americana e internazionale di fronte a un presidente che, ancora una volta, torna a casa a mani vuote. La cosa curiosa è che Obama, nelle prossime ore, farà esattamente quello che alcuni mesi fa giurava non avrebbe mai fatto. In un’intervista a Nbc dello scorso ottobre, il presidente spiegò che “quando andrò in Israele, sarà perché c’è un piano da far avanzare”. E tutto il suo primo mandato fu segnato proprio da questa idea: che una visita in Israele avrebbe dovuto essere rivolta a chiudere un accordo, a realizzare qualcosa di concreto, e non a rilanciare nuovi simboli e false speranze.

Perché dunque Obama parte e si piega a una politica di “simboli” e non di “fatti”? Perché in politica, spesso, i “simboli” valgono come i fatti e servono a stabilire le condizioni perché i “fatti” possano realizzarsi. A parte i pessimi rapporti con il premier Netanyahu, l’attuale presidente Usa non ha mai goduto di un’opinione particolarmente favorevole tra gli israeliani. Il suo discorso al Cairo, nel 2009, fece molto per attizzare la diffidenza israeliana. Sembrò allora a molti che Obama giustificasse l’esistenza dello stato d’Israele sulla base non di un diritto in qualche modo “storico”, ma come inevitabile conseguenza degli orrori dell’Olocausto.

La prima ragione del viaggio di Obama sta dunque proprio qui: nella volontà di attutire, se non superare, la diffidenza degli ebrei d’Israele. Obama visiterà la tomba di Herzl, la voce più importante del sionismo moderno, ma renderà omaggio soprattutto ai Rotoli del Mar Morto, testi centrali della cultura e religione ebraica, che come ha spiegato l’ambasciatore israeliano a Washington, Michael Oren, “furono scritti 2000 anni fa dagli ebrei, in ebraico, nella loro terra natia, la Terra di Israele”.

Il primo “simbolo” che Obama intende fissare è quindi proprio questo: l’enfatizzazione dei legami profondi di Israele e degli ebrei israeliani con il Medioriente, il diritto di Israele di essere esattamente dove si trova. Come ha spiegato ancora Michael Oren in televisione, a Channel Two: “Questo non è un Paese che è saltato fuori dal nulla dopo l’Olocausto. Questo è un Paese profondamente radicato nella regione. E’ legittimo e permanente”. L’omaggio alla legittimità storica e in qualche modo religiosa dello Stato di Israele dovrebbe servire a Obama per ammorbidire l’opinione pubblica e insieme il governo israeliano, creando le condizioni migliori per quando, molto presto, il segretario di stato John Kerry si recherà da solo nell’area per cercare di rilanciare il dialogo ormai stagnante tra israeliani e palestinesi. Il fatto che Obama non entri alla Knesset, ma preferisca parlare agli studenti e ai giovani israeliani, ha poi ovviamente un altro significato: tirarsi fuori dalle secche della politica israeliana, dai suoi ricatti e condizionamenti, per rivolgersi direttamente a quei settori di popolazione più aperti alla possibilità del dialogo.

Si tratta di un’apertura alla politica israeliana che, molto probabilmente, non è destinata a raccogliere particolari consensi nel mondo palestinese. Obama andrà a incontrare il presidente palestinese Abu Mazen e a visitare Betlemme in elicottero, saltando checkpoints, bulldozer e ogni altro segno dell’occupazione militare israeliana. La popolazione palestinese, in nessun momento del viaggio, entrerà in contatto con il presidente – in decine di piccole manifestazioni di queste ore i palestinesi hanno espresso la loro frustrazione bruciando bandiere Usa e deturpando immagini del presidente americano. Anche Abu Mazen, venerdì scorso, ha dato libero sfogo alla propria delusione nei confronti della Casa Bianca spiegando che “il presidente Obama ha detto in diverse occasioni di essere contrario agli insediamenti israeliani… Israele ha continuato a compiere errori e nessuno l’ha mai biasimato”. La visita a Betlemme ha poi un altro, più sottile ma comunque evidente significato: richiamare l’attenzione sulla sorte dei cristiani nei Paesi travolti dalle primavere arabe.

Resta la questione Iran, che in questo momento ha per l’amministrazione Usa forse più urgenza del declinante processo di pace israelo-palestinese. E’ stato Elliot Abrams, già vice-consigliere alla Sicurezza Nazionale di George W. Bush, a sottolineare che “il tema iraniano è al centro dell’attuale discussione con gli israeliani”. Parlando alle Nazioni Unite, lo scorso settembre, Netanyahu affermò che Teheran sarebbe arrivata alla fase finale del suo programma nucleare entro la primavera o l’estate di quest’anno. Il capo dell’intelligence di Gerusalemme ha ammorbidito la predizione, spiegando che “il programma nucleare iraniano sta progredendo più lentamente di quanto previsto, ma sta comunque progredendo”. I timori americani sul possibile attacco militare israeliano a obiettivi iraniani, con conseguenti ripercussioni in una regione già segnata da crisi e disordini, sarà quindi in cima all’agenda di Obama durante la sua visita in Israele.

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