Cinema

Pupi Avati, l’autobiografia dei ricordi tra Tognazzi, Villaggio e Cinecittà

Pienone alla libreria Ambasciatori di Bologna per il libro La grande invenzione. Tra le 389 pagine 50 anni di cinema italiano, aneddoti, racconti verosimili, fallimenti e successi del regista di Regalo di Natale: "Ripenso a quando iniziai la mia carriera con grande malinconia"

di Cristiano Governa

“Io e i miei amici volevamo fare cinema a tutti i costi, spedimmo centinaia di lettere e proposte a registi, sceneggiatori, produttori. Solo uno ci rispose, era Ennio Flaiano: Non scrivetemi più.”

Nessuna storia è davvero raccontata se non è Pupi Avati a farlo. Magari al cinema il suo habitat naturale, magari su carta (come in questa occasione per la presentazione alla libreria Ambasciatori di Bologna del suo ultimo libro/biografia “La grande invenzione”, Rizzoli, 389 pagine) ma è soprattutto lui, in carne ed ossa davanti a voi, la cosa più somigliante al “raccontare”.  Pupi è la combinazione della cassaforte che custodisce/separa i racconti da coloro che li attendono. Il passo più bello di questo tango nei ricordi, è che molte di queste storie, l’avatiano doc le conosce già, e che ogni volta, ascoltandole, sono nuove.

Esce dunque in libreria un’autobiografia di Avati, un libro nuovo che però abbiamo già iniziato a leggere. Cos’è infatti tutto il suo cinema, se non una fedele (odori inclusi) autobiografia a ritroso, nella quale un uomo fissa la foto di se stesso bambino, fino a risentirne la voce nella sua, improvvisamente bambina anche lei, supplicarlo di andar avanti, di raccontare ancora fino a che voce e bambino si incontreranno di nuovo e per sempre?  Di cosa parla Avati nel suo “La grande invenzione”? Di una famiglia fra la borghesia cittadina e Sasso Marconi, di un giovane cineasta che pedinava Federico Fellini, di un copione “smarrito” da Paolo Villaggio e ritrovato da Ugo Tognazzi, della cortesia di Pier Paolo Pasolini, del rapporto fra un uomo e lo scorrere del tempo, di una ragazza che per una sera si è fatta stringere la mano. E di “tutto il resto”. 

Un Ambasciatori gremito abbraccia il ritorno a Bologna di Avati al quale basta la consueta formula d’ingaggio “Forse voi non lo sapete…” per aver già tutti ipnotizzati  e ricordarci come lui riesca a far parlare/recitare i luoghi quasi meglio degli attori “Forse voi non lo sapete ma questo dove ci troviamo stasera era un cinema, e più precisamente il cinema nel quale per la prima volta ho presentato il mio primo film. Si chiamava Balsamus, l’uomo di Satana, era tremendo non vedetelo. Volevamo mostrarlo a questa città che si era mostrata così diffidente verso questi suoi figli che, al di fuori del sistema, avevano azzardato una professione così bizzarra. Non vedevano l’ora che fallissimo, e ci sono riusciti. Organizzammo una Prima come quelle romane di Cinecittà che avevamo visto nei cinegiornali,  un finto red carpet, noi tutti in smoking e l’amico Paolo Ferrari che fingeva di riprenderci perla Settimana Incom. Una meravigliosa cazzata. Ogni tanto riguardo le fotografie di quella sera, e provo tenerezza per quelle persone che volevano far finta di avercela fatta ma sapevano benissimo che non era così…”.

Si dice che Bologna stia diventando una città indifferente, si fosse sbrigata per tempo a diventarlo, non avremmo perduto Avati, procediamo per gradi. “Ero in un certo bar Niagara dove nessuno pensavo mi conoscesse, la barista chiede: c’è un certo Avati qua? E mi passa il telefono. Restai pietrificato dalla gioia quando dalla cornetta uscì una voce che diceva. Avati sono Dino De Laurentis. Solo la pernacchia che, alcuni secondi dopo che ci ero cascato, fece sghignazzare tutto il bar, mi svegliò da quel sogno e mi convinse che era tempo di partire”.

Partire verso qualcosa, ma soprattutto lasciando qualcos’altro… “Andai a Roma perché il cinema era là, ma anche perché quella città mi offriva l’indifferenza indispensabile per chiunque intraprenda un’avventura a così alto rischio di fallimento. A Bologna ogni mattina si facevano le classifiche, le hit parade del successo/fallimento e tu sapevi la posizione che occupavi… ”. Pupi intuì che non farcela a Bologna, così come farcela del resto, non sarebbe stato perdonato, perché sognare (in provincia) è un oltraggio intollerabile, quasi quanto realizzare quegli stessi sogni. Ma Albert Camus diceva “La miglior vendetta è vivere felici” e Pupi, senza saperlo, stava per vendicarsi…

“Ero disperato, disoccupato da quattro anni, e avevo il copione de La mazurka del barone, della santa, e del fico fiorone  pensai che l’allora astro nascente della tv, Paolo Villaggio sarebbe stato un protagonista perfetto e lo incontrai per proporglielo.

Non so gli piacque davvero, ma accettò. Poi sparì. Lo cercai per settimane. Finalmente lo scovo a Torvaianica al torneo di tennis di Ugo Tognazzi, col gotha del cinema italiano. Non ci fu nulla da fare, mi disse di lasciargli il copione su un tavolino di formica sul quale sapevo sarebbe rimasto…”.

Ma i momenti di assoluta felicità della vicenda umana, erano spesso appesi ad un filo del telefono… “Venti giorni dopo mi telefona a casa Ugo Tognazzi: Scusi è Pupi Avati lei? Ha scritto lei un film che si chiama La mazurka del barone…? Lei crede che io sarei adatto per la parte del barone Anteo Pellacani? Sa, quel suo copione, per sbaglio è capitato in mano a me…”.

La serata si dipana svelando curve imprevedibili di una carriera, dai ricordi di Leonardo Sottani, in arte e nella sua breve vita Nik Novecento  “Conoscerlo fu per me una palestra d’innocenza, per lui ogni giorno era nuovo e carico di promesse…” (scovato in un bar dell’appennino e mai più lasciato fino alla fine) a quella strana vicenda che fece di Avati uno di coloro che collaborarono alla sceneggiatura di Salò di Pasolini. “In un bancarella di Piazza della Repubblica, avevamo scovato Le centoventi giornate di Sodoma di De Sade (allora venduto sottobanco). Dopo peripezie – non era stata pensata per lui – la sceneggiatura finì in mano a Pasolini, che non sembrò gradirla, ma volle leggere il libro. Il libro glielo portai io, il film alla fine si fece”.

“Chiedimi perché faccio cinema…” dice, verso la fine dell’incontro, Pupi Avati al suo intervistatore.

La risposta, ha un nome e cognome “C’è una tale Rita Donzelli in sala?”  domanda Avati prima di raccontare la storia di un giovane impaurito che invita la più bella ragazza della sua città ad un concerto jazz molto importante. Compra due biglietti di seconda file per lei, si lava per una settimana “perché non sai mai da quale parte del corpo…”, le siede al fianco per tutto il concerto, col cuore in gola. Le prende la mano, la riaccompagna a casa e tenta di baciarla. Lei si scansa e lui bacia il lembo di un colletto. Vent’anni dopo, nel mondo del cinema dove tutti i conti vengono regolati, in una sequenza Rita Donzelli cambia idea e bacia quel ragazzo. “Questo è il motivo per il quale io faccio cinema” allarga le braccia Pupi Avati, mentre l’applauso del suo pubblico sembra un “grazie” anche alla signora Rita che, precisa Pupi, “era stupenda eh, ma aveva una voce orribile…”.  

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