Uno. Scusate il ritardo. Inizialmente avevo scritto che avrei postato una proposta editoriale a settimana, poi avevo aggiunto: visto che le proposte son tante, spero di postarne due (a settimana). Non sempre ci riesco.
Due. Ho visto che tanto materiale ricevuto non va bene. O non risponde a quanto avevo chiesto o è in pdf o è in un formato astruso. Contatterò chi ha fatto questi invii che non sono “postabili”.
Tre. Nel frattempo è successo che due persone che mi avevano inviato la proposta mi abbiano scritto: Per favore, non ci pubblichi più, abbiamo trovato un editore. Bene.
E buona lettura
reb

RACCONTI

di Annamaria Trevale

L’OMBRA

Sergio aveva sempre amato la vecchia casa sulle colline, dove si era svolta gran parte dell’esistenza della sua famiglia. Era stata costruita per volontà del bisnonno paterno, i nonni vi avevano trascorso tutta la loro vita, ed anche i suoi genitori vi avevano abitato per qualche tempo, appena sposati. Erano gli anni difficili dell’immediato dopoguerra, prima che riuscissero a trovare un alloggio per stabilirsi definitivamente in città.

Sergio era nato quando vivevano ancora in quella casa.

Per tanti anni vi era poi tornato per trascorrere le lunghe vacanze estive dai nonni – tranne il breve periodo delle ferie paterne che era sempre dedicato ad un soggiorno al mare- perché il luogo collinare, paradiso di vigne e frutteti, era pur sempre più gradevole della città calda e afosa.

La nonna preparava conserve e marmellate, il nonno si occupava dell’orto, imbottigliava il vino ed era sempre impegnato in qualche incombenza, mentre ogni cosa appariva, allora, semplice e bella agli occhi del ragazzino che scorrazzava in bicicletta su e giù per le colline, con gli amici che ritrovava fedelmente a ogni ritorno.

Fu solo qualche tempo dopo che Sergio iniziò a percepire la presenza di quell’ombra che sembrava aggirarsi per la casa ogni volta che qualcuno degli adulti ricordava lo zio Federico, l’unico fratello del padre che non aveva mai conosciuto. Di lui, naturalmente, aveva però sentito parlare fin da piccolo, considerando anche il fatto che nella dimora dei nonni c’erano sue fotografie sparse un po’ ovunque: Federico era morto appena ventiquattrenne in un terribile incidente, schiantandosi con la motocicletta poco lontano dal paese alcuni mesi prima della nascita di Sergio.

Dai racconti della nonna era emerso che diverse ragazze del paese dovevano essersi innamorate non troppo segretamente di lui, da come avevano seguito in lacrime il suo funerale. Al momento della morte non sembrava però avere nessuna fidanzata ufficiale, nonostante una certa fama di donnaiolo, corroborata dalla circostanza che doveva trattarsi senza dubbio di un magnifico ragazzo, come potevano testimoniare le fotografie.

Più tardi Sergio era venuto a sapere, da qualche ex compagno di giochi, che in paese erano circolate voci sulla possibilità che l’incidente mortale fosse dovuto al fatto che Federico quella sera, tornando a casa da un’allegra serata con gli amici, non fosse del tutto sobrio, circostanza che poteva avergli fatto perdere il controllo della motocicletta.

Questa versione non era mai stata accettata dai nonni, che ricordavano il figlio perduto, come spesso accade a chi muore in giovane età, soltanto come un giovane affettuoso, allegro, gran lavoratore e pressoché immune da ogni difetto.

Era solo la nonna, tuttavia, a parlarne spesso e volentieri col giovane nipote, sfogliando con lui i vecchi album di fotografie riguardanti l’infanzia e la giovinezza dei suoi figli perché il nonno, uomo di pochissime parole, tendeva a esprimersi raramente su qualsiasi argomento che non fosse indispensabile affrontare nella vita quotidiana.

Per quanto poi riguardava i suoi genitori, Sergio non tardò ad accorgersi che evitavano il più possibile di nominare lo zio morto: soprattutto il padre sembrava sempre pronto a cambiare argomento quando la nonna si abbandonava a seguire il flusso dei propri ricordi.

Ben presto, Sergio si convinse che quello paterno fosse solo un tentativo di evitare a tutti altre sofferenze, poiché non poteva fare a meno di notare che anche sua madre, in quelle occasioni, entrava visibilmente in tensione. Per un certo periodo il ragazzo si trovò a fantasticare spesso su quello zio mai conosciuto, arrivando quasi a percepirne la presenza come un’ombra rimasta in sospeso negli ambienti della vecchia dimora, finché, giunto alle soglie dell’età adulta, quei pensieri strampalati caddero nel dimenticatoio insieme a tante altre idee giovanili.

Del resto il tempo delle lunghe vacanze spensierate in collina era ormai terminato: Sergio iniziò a diradare le sue visite alla casa di famiglia, dove ormai si annoiava a morte, soprattutto dopo la scomparsa dei nonni, e a trascorrere le sue vacanze altrove, con gli amici o la ragazza del momento.

Anni dopo, quando decise di trascorrervi nuovamente un periodo di ferie con la giovane moglie ed il loro primo bambino, nato poche settimane prima, Sergio avvertì subito che l’atmosfera della casa era sensibilmente cambiata rispetto al passato.

Dopo la scomparsa dei suoceri, sua madre aveva rinnovato gran parte dell’arredamento ed eliminato molte vecchie suppellettili, tra cui molte delle foto di famiglia che in passato troneggiavano un po’ ovunque, e che, come scoprì dopo una rapida ricerca, erano state accuratamente chiuse nell’armadio di quella che un tempo era stata la stanza matrimoniale dei nonni.

Incuriosito, Sergio si chiese perché la madre avesse preso quella decisione, ma dopotutto si trattava del passato dei suoi genitori, ed evitò di fare loro domande. Del resto anche lui preferiva la casa così come appariva ora, un po’ rinnovata e di certo molto più confortevole rispetto ai tempi della sua infanzia.

Diversi anni dopo, quando la casa in collina era tornata ad animarsi per la frequente presenza di due bambini che giocavano e si rincorrevano in giardino, il padre di Sergio si ammalò seriamente e dovette essere ricoverato in ospedale per una lunga degenza.

Dagli esami iniziali prescritti dal medico di famiglia non si era arrivati ad una diagnosi chiara, perciò era stato necessario sottoporlo a ulteriori accertamenti, prima di riuscire a trovare la causa di un insieme di sintomi un po’ troppo contraddittori.

Una sera, il medico di famiglia telefonò a Sergio, che conosceva fin da ragazzino e con cui era ormai in rapporti amichevoli, per chiedergli di passare dal suo studio per un colloquio importante. Sergio immaginò che dovesse informarlo sulla gravità della malattia del padre, ma quando si trovò seduto di fronte all’uomo, che aveva bene in mostra davanti a sé una serie di esami di laboratorio, venne immediatamente rassicurato su questo punto.

“Tuo padre è in ottime mani, e poi ti spiegherò meglio le cure che dovrà affrontare, ma ora il problema è un altro. Io mi trovo in una posizione molto delicata e ti ho pregato di venire qua solo perché me l’ha chiesto tua madre, ma ti assicuro che ne avrei fatto volentieri a meno. Non sarebbe compito mio informarti di ciò che sto per dirti.”

Il medico fece una pausa, come se avesse qualche difficoltà nel proseguire il suo discorso, cosa che sorprese vivamente Sergio, perché in tanti anni non aveva mai visto l’uomo così in imbarazzo.

“Vedi, nel corso degli esami particolari che sono stati fatti a tuo padre, è emersa una cosa che non sapevo nemmeno io, ma che ti riguarda, e che ora non puoi più ignorare.”

“Accidenti, come sei solenne! Cosa diavolo sta succedendo?”

“Tuo padre è sterile.”

“Cosa?Stai scherzando?”

“Mi dispiace, ma è così. Quando ho visto gli esami, ho parlato con tua madre e lei me l’ha confermato, pregandomi di parlartene per primo. Lei poi ti dirà il resto, credo: quello però è un problema della vostra famiglia, non mio.”

Sergio si protese in avanti, aggrappandosi istintivamente al bordo della scrivania del medico, perché per un attimo aveva avuto timore di perdere il controllo delle proprie reazioni.

“Ma mio padre lo sa?”

“Sì. Sembra che l’abbia sempre saputo. Tu per lui sei suo figlio, e basta. Non devi dimenticarlo, chiaro?”

La sola impressione era ora quella di un vuoto totale nella mente. Persino la voce stentava a uscirgli dalla gola serrata.

“E allora di chi sono figlio, io?Dello Spirito Santo?”

Il medico sospirò.

“Non dire fesserie, Sergio. Tua madre naturalmente sa chi era il tuo vero padre, perciò ora devi andare a parlare con lei. Se vuoi il mio modesto parere, però in questo caso la biologia conta pochissimo: tuo padre è l’uomo che ti ha cresciuto e ti ha dato tutto il suo affetto, senza che tu avessi il minimo dubbio in proposito. Avresti mai sospettato di non essere suo figlio, se non ci fossero stati questi esami a dirtelo? Hai per caso avuto qualche dubbio sulle tue origini, nel corso dei tuoi cinquant’anni di vita?”

“No…”

“E allora? Parla con tua madre ma cerca di non perdere il senso della realtà, mi raccomando!”

Sergio annuì. Lasciò l’ambulatorio, salì in auto ma non la mise subito in moto. Rimase per mezz’ora a fissare il vuoto davanti a sé, incapace di formulare qualsiasi pensiero, poi riuscì finalmente a scuotersi.

Accese il motore e guidò lentamente fino alla casa dei genitori, a pochi isolati di distanza, fece a piedi le scale fino al terzo piano ignorando l’ascensore per cercare di ritrovare un minimo d’autocontrollo, e infine suonò il campanello solo dopo aver tirato un paio di respiri profondi.

Sua madre gli aprì la porta, in perfetto ordine come sempre, per quanto mostrasse un viso teso e affaticato.

“Oh, ciao! Sono appena arrivata dall’ospedale, papà oggi stava davvero meglio…”

“Sono contento. Vieni qua, ora dobbiamo parlare.”

Sergio prese la madre per un braccio e la condusse in salotto, sedette di fronte a lei e chiese piano, senza nessun preambolo: “Chi è mio padre?”

La donna impallidì, ma replicò immediatamente, come se in realtà fosse stata già pronta a ricevere quella domanda.

“Non l’avresti mai saputo, se non ci fosse stata la malattia, e quegli esami…Non è forse stato un ottimo padre, per te? Hai mai avuto il minimo sospetto?”

“No, ma ora ho il diritto di sapere tutto, non trovi?”

“Certo. Posso spiegarti tutto quello che vuoi.”

La madre fissò un punto indefinito alle spalle di Sergio e prese a raccontare con voce incolore.

“Tuo padre sapeva già di non poter avere figli ancora prima di conoscermi: gliel’avevano detto durante il servizio militare, ma lui non aveva avuto il coraggio di confessarmelo durante il fidanzamento.”

“Quindi ti aveva ingannato, sposandoti senza dirti che non avreste mai avuto figli?E’ questo che vuoi dirmi prima di tutto?”

“Sì. Nei primi mesi di matrimonio non mi preoccupai molto, perché non è detto che una donna resti incinta immediatamente. Allora vivevamo in collina, con i nonni e lo zio Federico…”

Sergio sussultò, perché la voce della madre si era incrinata pronunciando quel nome, e fu allora che, come un lampo, l’ombra su cui aveva tanto spesso fantasticato da ragazzo tornò a prendere forma davanti a lui.

“Federico aveva sempre avuto fama di donnaiolo, tutti lo adoravano e anch’io lo trovavo quasi irresistibile, era simpaticissimo, e sempre allegro, pieno di vita. Un paio d’anni dopo il matrimonio iniziò a starmi addosso, a corteggiarmi di nascosto, a cercarmi quando si presentava l’occasione d’essere soli, per quanto io lo scoraggiassi in tutti i modi, minacciandolo anche di accusarlo davanti a tutta la famiglia pur di farlo smettere. Poi capitò un periodo in cui tuo padre dovette adattarsi a viaggiare spesso per lavoro, ad assentarsi di frequente anche per alcuni giorni di fila…e allora successe.”

“Per molto tempo?”

“Poco più di due mesi, poi Federico morì nell’incidente e subito dopo io scoprii d’essere incinta: solo allora, bada, tuo padre mi confessò di essere sterile e così capimmo che tu potevi essere solo figlio di suo fratello.”

Sergio, seduto a braccia conserte nello sforzo di bloccare il tremito nervoso che lo stava assalendo, cercò di rispondere con un tono di voce normale, nonostante gli fosse così difficile trovare le parole per esprimersi.

“Bella storia, non c’è che dire! Un matrimonio fondato sul reciproco inganno, ed io nel mezzo.”

La madre lo fissò intensamente negli occhi:

“Può darsi che il nostro matrimonio sia iniziato male ma ha resistito per quarantasette anni, e non mi sembra che tu abbia nessun motivo di lamentarti di come sei stato cresciuto! Tuo padre mi ha sempre amato, e per farsi perdonare il fatto di avermi nascosto la sua incapacità d’avere figli ti ha cresciuto come se fossi suo, anche perché nessuno ha mai saputo la verità tranne noi due, nemmeno i nonni. Che cosa cambia, ora, per te?  Hai nelle vene il sangue del fratello del papà, non di un estraneo.”

“Già. Ora capisco molte cose.”

“Quali?”

“Difficili da spiegare, forse. Sensazioni che provavo tanti anni fa, al tempo in cui stavamo tutti quanti nella casa in collina. Quando voi adulti parlavate di Federico, sentivo la sua ombra vagare attorno, come se qualcosa non andasse per il verso giusto. C’era una strana tensione, nell’aria.”

La madre sembrò sul punto di replicare, ma poi rinunciò e rimase seduta in silenzio, forse inseguendo qualche fantasma del suo passato.

Improvvisamente, Sergio si rese conto di come iniziasse a rivelare i segni dell’età che avanzava sul viso, solcato da rughe sottili, e nelle spalle che tendevano leggermente ad incurvarsi quando si sedeva in poltrona, e si ricordò che Federico, l’uomo che gli aveva dato la vita, era morto da decenni, perciò tutto quanto era accaduto nel frattempo, compresa la sua intera esistenza, aveva riguardato esclusivamente coloro che gli erano sopravvissuti.

Il medico aveva saputo dirgli una cosa molto saggia, avvertendolo che, nel suo caso, la biologia contava pochissimo e Sergio capì, mentre restava a lungo in silenzio a osservare sua madre, cercando d’immaginare quali pensieri stesse formulando dentro di sé, che non avrebbe mai potuto ritenersi figlio di un’ombra.

“E ora cosa pensi di fare?”

La voce materna aveva rotto finalmente il silenzio.

Sergio decise che era il momento di tornare alla realtà e si alzò in piedi, per quanto l’operazione gli riuscisse terribilmente faticosa.

“Niente, mamma. Assolutamente niente. Non preoccuparti.”

Fuori l’aria era tiepida, e brillavano già le prime luci della sera.

Sergio si rimise al volante per tornare a casa, ma dopo qualche minuto capì di non essere in grado di affrontare la moglie e i figli nelle condizioni in cui si trovava in quel momento, e poi doveva sicuramente fare altro, prima: cercò di districarsi alla meglio nel traffico, tentando di ricordarsi il percorso da seguire pur nel caos che sentiva di avere al posto del cervello, e si diresse verso l’ospedale, per andare a salutare l’unico uomo che avrebbe sempre chiamato padre.

Ipotesi di quarta di copertina 

Una donna scrive racconti che hanno per protagonisti degli uomini.
Uomini che devono affrontare fantasmi ingombranti del passato, che non sempre accettano di essere rimossi.
Uomini che si dibattono tra le difficoltà della vita quotidiana, tra esperienze sentimentali sfortunate e progetti mai portati a termine.
Uomini che tentano di cambiare vita, ma non è detto che poi riescano a farlo.
Uomini che sono alle prese con i problemi del mondo del lavoro, la crisi economica attuale e le insoddisfazioni di sempre.
Uomini che possono essere ottimi padri, ma che a volte non sanno che farsene della paternità.
Insomma, uomini che potreste incontrare nella vostra vita quotidiana, e che spesso conoscete benissimo.

L’autrice 

Annamaria Trevale è nata e vive a Milano. Ha pubblicato un romanzo “A quattro mani” (Oppure, 2002), le raccolte di racconti “In prima persona” (Firenze Libri, 2004) e “Solitudini” (Prospettiva, 2008), oltre a numerosi racconti in antologie e su riviste. Collabora alla webzine “Sul romanzo”.

annamariatrevale@virgilio.it

 

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