Era il 4 febbraio scorso quando una delegazione composta da circa 40 persone fra attivisti, operatori dell’informazione, candidati alle prossime elezioni, organizzata da LasciateCientrare, ha avuto modo di visitare il centro di Ponte Galeria a Roma. Nonostante i locali tirati a lucido per l’occasione e la disponibilità degli operatori della cooperativa Auxilium (che gestisce il centro) a rispondere alle domande della delegazione, una parte del centro è rimasta comunque off limits. Quale? Quella più importante, ovviamente: il settore maschile. Quel settore cioè dove è rinchiusa gran parte della popolazione immigrata del centro. Ammassati da dietro le sbarre che separano le loro stanze (o celle?) dal resto del centro, hanno allungato come potuto le braccia per toccare la delegazione e per invitarla ad avvicinarsi, hanno alzato la voce per farsi sentire, e hanno urlato per raccontare le loro esistenze spezzate dal decreto di espulsione, le condizioni di vita disumane (assenza di acqua calda, riscaldamento, cibo) nel centro, i rischi per l’incolumità se rimpatriati. 

Nulla di nuovo, insomma. Questa è la realtà dei centri di detenzione amministrativa per gli immigrati in attesa di espulsione in Italia. Luoghi in cui si concentrano per diciotto mesi disperazione e dolore di migliaia di uomini e donne. Di coloro che hanno superato avversità indicibili per giungere in Italia, spesso attraversando mari e deserti guardando la morte negli occhi; di coloro che hanno poi subìto i ricatti dei padroni e padroncini, sparsi lungo lo stivale, per lavorare di più e guadagnare una miseria. Perché in fondo non erano che clandestini. Ectoplasmi nell’ordinamento italiano.

Chi pensa che questa rabbia e disperazione non esplodano, prima o poi, è sostanzialmente uno in mala fede. Chi invece pensa che questa rabbia e disperazione siano ingiustificate è uno che non ha mai messo piede in questi luoghi della vergogna, oppure perché è disposto a negare fino alla fine l’umanità di quelle donne e quegli uomini rinchiusi soltanto perché vogliono fortemente vivere e lavorare in questo paese. 

L’ultima rivolta di ieri nel Cie di Ponte Galeria non può quindi essere affrontata con gli strumenti della repressione. Arrestare e punire dei disperati perché non vogliono vivere in condizioni disumane non risolverà la situazione. Perché non sarà la repressione a fermare le rivolte: esistono da quando esistono questi centri/inferni metropolitani. Circa le condizioni disumane di questi luoghi abbiamo ormai una lunga fila di sentenze che lo dimostrano, a partire da quella del tribunale di Lecce contro il centro ‘Regina Pacis’, nel 2005, per arrivare alle più recenti sentenze del tribunale di Crotone e di Milano. Non sono le prove e le inchieste che mancano, e neanche le riflessioni giuridiche e sociologiche, per capire che non si tratta di casi isolati, ma di una realtà scaturita dalla stessa condizione di detenzione degli immigrati in istituzioni totali. Perché è questo che sono i Cie. Ciò che manca qui è la volontà politica e istituzionale di prendere atto di ciò. E di fronte a tutto questo scenario è davvero arduo pensare ancora che si tratti di miopia politica. E’ chiaro che qui tutti ci vedono fin troppo bene. Non resta che prendere noi atto della realtà e capire, una volta per tutte, che questo è esattamente ciò che si vuole realizzare. Senza infingimenti e acrobazie retoriche.

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