Una cosa interessante del parlare di geopolitica, insomma “cose estere”, è che spesso si dimentica la propria nazione. Un attacco di pirati somali qui, il ribaltamento del partito cinese là, l’Italia è piccina, si tende a dimenticarla. Spesso son proprio amici e conoscenti stranieri a farmela ricordare. In questi giorni mi trovo subissato da amici “non italiani” che, con un mix di ansia e curiosità, mi chiedono che succederà da noi. Ovviamente si parla di elezioni nazionali e, nel caso della Lombardia uno dei motori economici nazionali, elezioni regionali. Non trattando di politica nazionale ho cercato di veder la cosa da fuori. Come si vende l’Italia all’estero? Com’è percepita? Contrariamente a quel che molti italiani pensano, gli “stranieri” ci vedono bene. Ero a Londra alcune settimane fa e parlavo con Guglielmo Picchi, membro dell’Oscepa (l’assemblea parlamentare dell’Osce della quale l’Italia è membro). Si parlava di cibo, argomento familiare a ogni buon italiano. Mi ha raccontato un evento che, nella sua peculiarità, mi ha dato lo spunto per quest’articolo. Una cosa piccola che, tuttavia, aiuta a promuovere l’Italia all’estero.

L’Istituto Italiano di Cultura di Londra, tramite una convenzione con il Ministero dell’Istruzione, per diversi mesi ha offerto l’opportunità ad Istituti Alberghieri Italiani di portare i propri studenti a fare una esperienza a Londra. Per circa 18 mesi, 18 istituti si sono alternati per cucinare e servire ai tavoli all’Iic” mi spiega Guglielmo. “Un modo molto semplice per tirar dentro gli inglesi nella nostra cultura, dopo tutto il cibo è una lingua. Il progetto ora è terminato ma spero che, dopo le nuove elezioni, sarà ripreso”. Il cibo è una lingua: noi italiani parliamo tante lingue (o dialetti) quanti sono i cibi della nostra penisola. Dal cous cous siciliano ai canederli trentini. Il cibo è una lingua che, attraverso secoli di tradizioni, ricerca sperimentazioni parla a chiunque, senza necessità di particolari preparazioni culturali, sociali o psicologiche. Io non parlo Swahili o Urdu, ma, se mi siedo a tavola con un keniota o un uzbeko per una pizza, forse non ci capiremo, ma costruiremo un rapporto, condividendo il pranzo. Perché non avere un approccio simile anche per altri settori?

Il marchio “Made in Italy“ dovrebbe essere difeso e diffuso usando gli stessi italiani residenti all’estero come ambasciatori. Stesso “gioco” si potrebbe fare per le singole regioni che, per certi versi, sono nazioni nella nazione. Pensiamo alla Lombardia, con un pil regionale invidiabile (se non erro sopra il 4%). Perché non rilanciare la produzione locale per settori cardini come la meccanica, la moda, il design e ovvio il cibo. Una visione che ho riscoperto comune in Brianza, la stessa area che a colpi di mobili ha arredato metà delle case del Medio Oriente (i mobili gentilmente sfasciati dagli americani, mentre democratizzavano l’Iraq, provenivano dalla Brianza). “Dovremmo esser fieri del nostro prodotto, specie se creato dai nostri artigiani, agricoltori e progettisti. Dobbiamo creare team di esplorazione, per trovare nuovi mercati per i nostri prodotti e promuovere il made in Italy e il made in Lombardia nel mondo”, mi spiega Fabrizio Sala Vice presidente della provincia di Monza e Brianza. “Le imprese possono utilizzare il simbolo dello Stato solo se rispettano alcuni canoni virtuosi precisi. Uno degli scopi dell’Italia, dovrebbe essere quello di far valere il Made in Italy e di garantire la qualità dello stesso, tutelando anche l’occupazione nel nostro Paese e non nei Paesi in via di sviluppo: dobbiamo dire basta alla produzione cinese con marchio italiano, occorre la certificazione di produzione in Italia! Anche in Lombardia con una piccola modifica normativa, si possono individuare dei criteri qualitativi riguardanti ad esempio l’assunzione o il rispetto di norme in materia di sicurezza, e concedere solo a queste aziende il marchio della Rosa camuna”, conclude Fabrizio. Due esempi semplici, su cui lavorare.

Una cosa che mi colpisce parlando con i “non italiani” è che, vista da fuori l’Italia non è poi così male: non ha più difetti di altre nazioni. Tuttavia mi rattrista notare che, con tutti i pro e contro della nostra nazione, gli italiani tendono ad esser i primi a criticare l’Italia. Agli amici stranieri che mi chiedono “chi voterai?” sorrido e non rispondo, il voto è segreto. L’unica cosa che rispondo loro è che spero che gli italiani vadano a votare. Qualunque sia l’esito delle elezioni, se l’Italia vuole darsi una scrollata e cercare di riaffermare la sua presenza all’estero (che tradotto in soldoni significa diffusione di cultura e tradizioni, accrescere la nostra visibilità e di conseguenza export, crescita di fatturati etc) servirà un governo fatto di gente che abbia a cuore il futuro e che sappia cosa c’è là fuori. Che dire sono un ottimista? “L’italia se desta!”.

Articolo Precedente

Salviamo il Cto Alesini di Roma, esempio di sanità pubblica da imitare

next
Articolo Successivo

Crisi dell’università: choc generazionale e liberismo anagrafico

next