Palla a lui, poi tutti zitti. Palla a lui e gli avversari erano consci della “condanna”. Palla a lui ed era show puro, incredibile, inedito, eppure ripetuto migliaia di volte lungo vent’anni di carriera sui campi da basket dell’Nba. Nessuno è mai riuscito realmente a fermarlo, Michael “Air” Jordan. Nessuno. “Perché era impossibile. Secondo me è stato l’unico giocatore di uno sport a squadre in grado di vincere da solo una partita. E io la perfezione l’ho vista da vicino. Era lui”. Il fortunato è Vincenzo Esposito, detto “Vincenzino”. Mentre l’eletto, il prossimo 17 febbraio, compie 50 anni. “Quando ero con i Toronto Raptors l’ho incontrato un paio di volte. Che meraviglia. Noi eravamo dei comprimari, delle comparse di uno spettacolo ‘oltre’. Lo sa una cosa?”. Prego. “Noi tutti, non solo io, aspettavamo l’intervallo o la fine del match per farci una foto con lui, per un autografo. Ci schiacciava in faccia e restavami lì allibiti”.

Restavano lì a contemplare qual tempo infinito in cui “Lui” staccava i piedi da terra per voleggiare verso il canestro. Volava, da questo il soprannome “Air”. Infiniti attimi, perfetti per creare una leggenda, durante i quali MJ aveva l’esatto controllo sia del corpo che dello spazio: non era raro vederlo surclassare avversari molti più prestanti di lui (alto “appena” 198 centimetri), nel frattempo tirare fuori la lingua, guardarsi attorno, mulinare il braccio insieme alla palla. E schiacciare da trenta e oltre centimetri sopra l’anello del canestro. In faccia al mondo.

Una leggenda racconta che durante una partita di campionato tra i suoi Chicago Bulls e gli Utah Jazz, in azione spicca il volo in faccia al piccolo John Stockton, appena 185 centimetri. A quel punto un tifoso dei Jazz gli urla: “Jordan, prenditela con uno della tua taglia!”. Bene. Poco dopo Michael ripete lo stesso movimento su Mel Turpin, 211 centimetri. E risponde: “Che dici, era grosso abbastanza?”. Sì, ma non quanto Patrik Ewing, un omone di 213 centimetri, stella assoluta e centro dei Knicks, più volte stroncato da Jordan, anche al Madison Square Garden.

Stessa sorte per Larry Bird, leggenda di Boston o “Sir” Charles Wade Barkley, alto quanto lui ma con una struttura muscolare e ossea tale da renderlo rettangolare, simile “a una lavatrice” come dicevano i suoi detrattori. Tutti giocatori entrati nella storia nel basket mondiale, ma due gradini sotto allo stesso Air. “In quegli anni sono stato negli Stati Uniti – racconta Valerio Bianchini, più volte coach di numerose squadre italiane – e vedere Jordan mi ha impressionato. Uno in grado di attaccare anche la forza di gravità. Un’atleta con un fisico straordinario, una tecnica unica e, soprattutto, una capacità assoluta di vincere dove gli altri perdevano: la testa. Prendete l’ultima sua partita con i Bulls. Quei quaranta secondi sono la perfetta sceneggiatura per uno spot sul basket…”.

Ecco la sceneggiatura: match decisivo tra i Jazz e i Tori, in palio la conquista del titolo. Si gioca a Utah e Jordan ha 36 anni. Chicago è sotto di tre punti, Air segna da sotto. Meno uno. La squadra di casa va in attacco, ma lui strappa la palla a Malone (c’è chi dice in maniera irregolare) e attraversa il campo da solo. Si ferma. Palleggia. Parte verso destra. All’improvviso cambia direzione e va a sinistra, chi lo marca finisce con il culo a terra. Letteralmente a terra, non è una metafora. Jordan si blocca di nuovo. Salta. Resta in aria. Tira, segna. E vince il suo sesto titolo mondiale.

“Ho visto difensori impazzire, quasi arrendersi – continua Bianchini – Michael possedeva quell’infinita frazione di secondo in più in grado di tenerlo in aria più degli altri. Quando i ‘comuni’ tornavano con i piedi verso terra, lui era ancora in alto pronto a tirare solo. Indisturbato”. E molto spesso era canestro. Statistiche: 32.292 punti in 1.072 match nella stagione regolare; altri 5.987 in 179 gare di play-off. Per 10 volte miglior marcatore della Nba (record assoluto); miglior marcatore per 7 stagioni consecutive (dal 1987 al 1993). Record di punti segnati in una partita di campionato: 69 contro i Cleveland Cavaliers il 28 marzo del 1990. E ancora: più alta media punti nella storia (30,12) e più alta media punti a partita nei play-off (33,4). “Numeri che hanno reso Jordan un’icona – spiega Bianchini – prima di lui l’Nba era in mano ai bianchi e a un’aristocrazia di giocatori di colore. Con lui e David Stern (commissario dell’Nba dal 1984) è cambiato tutto. Il basket è diventato un ponte verso la reale integrazione razziale. Un’integrazione che ha portato fino all’elezione di Obama come presidente degli Stati Uniti. E le assicuro che non esagero. E c’è un importante trattato di sociologia che interpreta questo pensiero”.

Il trattato si intitola The meaning of sports e il suo autore è Michael Mandelbaum, accademico all’Università John Hopkins. Come la maggior parte degli insegnanti universitari è un assatanato tifoso degli sport di squadra. Baumann ha una tesi: lo sport di squadra riflette l’organizzazione sociale, e lo spiega prendendo in esame le tre grandi discipline a Stelle e Strisce. Quindi: il baseball è lo sport dell’era contadina. Si svolge all’aperto e dura finché non scende il sole come il lavoro dei contadini e come quello ha tempi lunghi, grandi pause, come quando, al tocco, i contadini arrestano la loro fatica e alzano al cielo una preghiera. Il football americano rappresenta l’era industriale: settori separati, iper-specializzati. Ogni settore costruisce un pezzo e il prodotto finale è l’assemblaggio dei pezzi del gioco. Esattamente come nella catena di montaggio inventata da Ford.

Il basket è l’era post-industriale e post-moderna, del terziario e della comunicazione: tutti devono giocare sia in attacco, sia in difesa, tutti, per ragioni tattiche, devono sapersi scambiare i ruoli oltre la propria specializzazione. Non c’è interruzione.

MJ, nonostante potesse vincere da solo le partite, è l’emblema di tutto questo. E la Nike è l’azienda che lo ha fatto suo. La “piuma”, già protagonista con Carl Lewis (poi anche Andrè Agassi) si è consacrata grazie al binomio con Jordan, tanto da creare un brand a lui dedicato: dalle scarpe da ginnastica, a felpe, pantaloni e via cosi. Una linea ancora oggi in piedi nonostante il numero 23 abbia smesso di giocare da dieci anni. Non importa, L’immagine stilizzata di lui in volo vale sempre milioni e milioni di dollari. Perché nessuno (ancora) è riuscito a essere come lui. Così davanti allo stadio del basket di Chicago c’è una grande statua di Jordan impegnato in una schiacciata. Sopra una targa: “The best there ever was, the best there ever will be”. Tradotto: il migliore che ci sia mai stato, il migliore che mai ci sarà. Buon compleanno, mister Air.

 

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