tunisiaIl funerale di Chokri Belaid, venerdì, ha avuto una partecipazione straordinaria (secondo dati del Ministero dell’Interno, un milione e 400.000 persone) e un impatto, politico ed emotivo, potente.

Fa rabbia il fatto che la vita di un uomo che, da Bourguiba a Ben Ali, si era opposto costantemente alla dittatura, sia stata stroncata, la mattina del 6 febbraio, quando quel sistema di potere sembrava essere stato consegnato alla pattumiera della storia, rimasta però evidentemente aperta. Ed è amaro immaginare che i mandanti e gli esecutori dell’agguato criminale possano aver gridato gli stessi slogan di Chokri, insieme a lui, nei giorni gloriosi che precedettero la caduta di Ben Ali.

È che a berciare in favore della “rivoluzione” sono buoni tutti. A difenderne i valori, a praticare la democrazia e il rispetto per le idee altrui, nei fatti e con continuità nel tempo, sono buoni in pochi. 

Chokri, segretario generale del Partito dei patrioti democratici e membro del consiglio dei segretari del Fronte popolare, era uno di quei pochi. Con sua moglie Besma, prima durante e dopo la “rivoluzione” aveva chiesto libertà, dignità, diritti, lavoro, uguaglianza. Era critico verso le politiche ultraliberiste abbracciate dal governo e la deriva verso l’intolleranza in cui la Tunisia era, da mesi, scivolata.

Il codardo omicidio di Chokri non reclamava soltanto il corpo del leader dell’opposizione democratica. L’odio che ha guidato i proiettili che gli hanno trafitto il petto non si sarebbe placato mettendo a tacere i battiti del cuore dell’uomo politico. Un gesto così infame non può che scaturire da quelle forze liberticide consapevoli che Chokri incarnava il respiro collettivo della democrazia e della laicità, del rispetto e della libertà.

Questo omicidio politico in piena regola, nello stile degli squadroni della morte sudamericani, è maturato in quel clima di violenza liberticida, che dai palazzi del nuovo potere tunisino è stato rapidamente portato nelle strade dai nostalgici di Ben Ali e, soprattutto, dai militanti islamisti vicini al partito Ennahda.

Negli ultimi mesi, vi sono stati numerosi atti di violenza contro attivisti politici e sedi di partiti, riunioni private e incontri pubblici. L’ultimo, il 2 febbraio, nel corso di un’iniziativa cui lo stesso Chokri aveva preso parte.

L’opposizione politica ha denunciato ripetuti casi di aggressione accusando le autorità di aver lasciato correre, di non aver garantito protezione adeguata.

Passato un giorno dall’omicidio di Chokri, c’è stato già l’arresto di un sospetto, il suo autista. Ma vi è il rischio che, a causa dell’assenza d’indipendenza del potere giudiziario, l’inchiesta non vada a fondo nel chiarire i moventi e individuare i mandanti.

Le autorità tunisine si sono prese una grande responsabilità, decidendo di portare la salma di Chokri dalla casa di famiglia di Djebel Jelloud fino al cimitero di Djellaz, sempre nella capitale Tunisi, su un camion delle forze armate, circondata da agenti della polizia militare. In questo modo Chokri è stato ufficialmente consacrato come “martire”. Speriamo non sia stata una volgare messinscena.

Dopo l’assassinio, il presidente tunisino Moncef Marzouki ha affermato: “Continueremo a combattere i nemici della rivoluzione”.

Quali nemici? E quale “rivoluzione”? Si è guardato intorno?

Avrei preferito ascoltarlo dire, usando le parole pronunciate da Chokri per una vita intera, “continueremo a combattere per assicurare a tutti i tunisini libertà, dignità, diritti, lavoro, uguaglianza”.

La Tunisia è, evocando il titolo di un gran film di Kim Ki-duk, “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera”, in un circolo mutevole e drammatico di stagioni. Chi ha arrestato il respiro di Chokri crede di poter soffocare anche la brezza del rinnovamento. Ma l’ondata di indignazione che si è sollevata lascia sperare che questo vento non recherà polvere ma gonfierà la vela della Tunisia verso gli orizzonti che Chokri contemplava. Verso ancora la primavera.

Foto Lapresse

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