Mancano pochi mesi per decidere la città che ospiterà i Giochi del 2020. Ma anche se la candidatura portata da Tokyo sembra essere, al momento, la favorita, ai promotori resta il solito problema: convincere i giapponesi. 

Tim Lahan

L’idea delle Olimpiadi in casa non ha mai suscitato grandi entusiasmi nell’arcipelago. Dopo il terremoto e maremoto dell’11 marzo 2011 però, l’allora governatore nazionalista di Tokyo Shintaro Ishihara, noto tra l’altro per la sua avversione per gli stranieri, si è detto deciso a volersi aggiudicare l’evento “a ogni costo”. La vittoria l’avrebbe riscattato dall’imbarazzante sconfitta del 2009, quando i Giochi del 2016 furono assegnati a Rio de Janeiro, e avrebbe acceso i riflettori del mondo sulla ripresa del Giappone dopo la catastrofe nel Nordest del paese. Questa idea è cominciata a diffondersi tra l’opinione pubblica in modo sempre più convincente. Ishihara si è dimesso alla fine del 2012 per fondare un nuovo partito e poi partecipare alle elezioni generali a dicembre. Il suo progetto è stato accolto e portato avanti dal nuovo governatore di Tokyo, il critico e giornalista Naoki Inose. Deciso a realizzare il sogno di Ishihara, ha dichiarato in una conferenza stampa di inizio anno di non aver ancora un piano preciso per guidare il paese alla vittoria, ma si è detto “molto impegnato” in questa direzione.

Per darne prova ha anche iniziato una serie di tweet promozionali in giapponese e in inglese dal suo account, mentre stanno fiorendo altre piattaforme sociali a favore l’evento.

Quando a metà gennaio Inose e Tsunekazu Takeda, presidente del Comitato olimpico giapponese, hanno presentato a Londra la candidatura di Tokyo, hanno lanciato l’immagine di una città che sogna da anni di ospitare di nuovo le olimpiadi estive, dopo quelle del 1964.

I giochi sarebbero soprattutto un’ottima occasione per mostrare al mondo la capacità organizzativa del Giappone e la propria solidità economica, oltre che a uno stimolo per l’economia.

Ma di questo, non è del tutto convinta una parte dei giapponesi. Secondo un sondaggio telefonico fatto tra il 7  e il 9 gennaio dal governo metropolitano di Tokyo circa il 66 percento degli intervistati si è detto favorevole all’assegnazione.  Ora il dato dovrà essere confermato dal Comitato olimpico dei giochi (IOC), che nel maggio del 2012 aveva rivisto a ribasso un altro ottimistico sondaggio fatto dai giapponesi, registrando solo il 47 percento di consensi.

Il no dei detrattori è legato in particolare al forte impegno finanziario richiesto a Tokyo per partecipare, circa 3,3 miliardi di euro il fondo presentato adesso con la candidatura, che potrebbe essere usato in un altro modo più diretto per la ricostruzione delle aree del nordest. Qualcuno aveva suggerito di collocare i Giochi proprio nelle città colpite da terremoto e tsunami. Ma l’opposizione di Ishihara e la realistica difficoltà a ricostruire tutta l’area e le infrastrutture olimpiche per ospitare atleti e spettatori entro il 2020 hanno fermato l’idea. Resta anche da decidere il futuro riutilizzo delle costruzioni messe in piedi per le olimpiadi.  Lo stimolo promesso dalla manifestazione non porta in genere grandi effetti di lungo termine diretti né indiretti per l’economia del paese che li ospita, se non addirittura in alcuni casi quello di creare pesanti indebitamenti (vedi: Olympic Caveats: Host Cities Risk Debt, Scandal).

Molti giapponesi si chiedono se forse il paese non abbia altri problemi da risolvere. Prima della corsa con Istanbul e Madrid, Tokyo dovrà adesso pensare a giustificare seriamente i motivi della propria candidatura, e il vero legame tra le Olimpiadi e la ricostruzione, se esiste.  

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