In tutta franchezza, mi riesce alquanto difficile comprendere il crescente entusiasmo di tanti operatori e rappresentanti del Terzo Settore per il fatto che, mai come in occasione delle prossime elezioni politiche, tanti nostri colleghi provenienti dal no profit abbiano deciso di candidarsi. Indipendentemente dalla qualità, sovente ottima, delle persone che hanno compiuto tale scelta, a mio parere ciò certifica il fallimento del meccanismo di concertazione che in tanti anni il Terzo Settore ha cercato di instaurare con la politica.

Credo infatti che tale scelta sia motivata, più che da ambizioni personali, dal desiderio di poter incidere finalmente in maniera concreta sui meccanismi di policy-making italiani, acquisendo una rappresentanza nella stanza dei bottoni. Tutto legittimo, per carità. Alla fine bisogna difendersi coi mezzi che vengono messi a disposizione.

Però, se ci pensate bene, proprio il Terzo Settore è stato per anni il paladino e promotore del concetto che la politica non si fa solo nelle stanze del Parlamento, ma in tutta l’articolazione di quella che oggi viene definita, con un termine orribile e discriminatorio, società civile (come se altri settori non coinvolti fossero incivili, mah!). E, sulla scorta di questo credo, abbiamo lottato strenuamente per concordare meccanismi di confronto con il potere politico, con la pretesa di influenzarne e determinarne le decisioni, che perlomeno potessero essere “decisioni informate” avendo appunto a disposizione gli elementi tecnici di indirizzo da noi forniti.

Evidentemente questo schema non ha funzionato, se tanti big players del Terzo Settore hanno pensato che l’unico modo per farsi ascoltare davvero fosse quello di entrare in politica. Risolvendo – mi auguro – nel breve periodo il dilemma di come proporre una voce ascoltata dalla politica, ma lasciando il nodo tuttora irrisolto di come poter svolgere un’azione politica senza dover per forza iscrivere il proprio nome in qualche lista elettorale.

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