Oggi pubblico questa recensione che verrà pubblicata sul mensile A rivista anarchica nel numero di aprile.

copertina libro Giampiero BertiL’ultimo libro di Giampietro Berti è soprattutto una disamina feroce e al contempo appassionata dell’anarchismo contemporaneo. Una teoria e una pratica in profonda crisi, sostiene l’autore. Che propone anche alcune ipotesi per costruire una dimensione in assonanza-dissonanza con la realtà contemporanea del movimento anarchico».

«Ora l’anarchismo, inteso come movimento storico, non rappresenta altro che se stesso».

A prima vista questa frase estrapolata dall’ultimo libro di Giampietro Berti (ma tanti lo chiamano Nico) sembra suonare la campana a morto dell’anarchismo. E che in questi ultimi anni l’anarchismo e il movimento che lo rappresenta non stiano troppo bene è cosa purtroppo vera. E anche il titolo del libro non sembra incoraggiante: Libertà senza Rivoluzione. L’anarchismo fra la sconfitta del comunismo e la vittoria del capitalismo (Piero Lacaita editore, 2012).

In 395 pagine Berti analizza la crisi dell’anarchismo. Crisi che daterebbe dalla sconfitta della rivoluzione nella Spagna del 1936. Perché l’anarchismo «è sempre metafisico: è questo il prezzo che paga per essere etico, e dunque antipolitico e dunque rivoluzionario». E infatti oggi «l’anarchismo è destinato a una deriva storica terribile: i rimasugli del suo rivoluzionarismo inghiottiranno fino in fondo il suo libertarismo».

E poi Berti rincara la dose: «Perché gli anarchici sono incapaci di fare politica? Sono incapaci perché l’hanno sempre identificata con la logica del potere, con la dinamica del comando. Infatti, alla rivoluzione politica, hanno sempre anteposto la rivoluzione sociale. Questa, nella loro illusione, una volta posta in essere avrebbe dissolto ogni volontà e ogni possibilità autoritaria perché la forza germinativa del sociale sarebbe stata in grado di distruggere ogni divisione alienante fra società politica e società civile, rendendo superfluo il problema del politico, ovvero il problema del potere».

E se non fosse sufficiente Berti aggiunge: «In conclusione l’anarchismo si trova di fronte a questo aut aut. O coltiva la sua antropologia storica, chiudendosi in una controsocietà – che comunque non ha alcun avvenire -, o abbandona ogni idea socialmente definita di emancipazione umana, con tutto ciò che questo, politicamente e ideologicamente, comporta. Tertium non datur». E se il terzo, il quarto, il quinto…invece ci fossero?

Berti ha una visione «ottocentesca» o «sessantottina» della rivoluzione e per questo titola così il suo importante (nonostante le mie critiche) libro e ritiene che «il desiderio di utopia» sia fuorviante perché irragionevole. Ma non mi fermo qui: perché la rivoluzione futura (ammesso che possa realizzarsi) dovrebbe seguire i percorsi classici? Dove sta scritto che si esprimerà con barricate o sommosse? Da nessuna parte. E, ancora, dove sta scritto che la ragionevolezza sia superiore alla volontà desiderante di utopia? Da nessuna parte.

E molte pagine dopo Berti picchia ancora più duro: «la Rivoluzione non può che essere intrinsecamente universalista e quindi anti-relativista, altrimenti verrebbe meno la sua ragion d’essere (…) la rivoluzione non sarebbe mai la Rivoluzione e non potrebbe mai aspirare al definitivo “totalmente altro”», e, molte pagine dopo, scrive anche: «L’anarchismo deve abbandonare ogni filosofia di fine della storia; deve smettere di pensare in senso poietico; deve uscire dal mito ed entrare nella realtà; deve eliminare il principio stesso di speranza».

Insomma, per Berti bisogna passare dal principio speranza (Ernst Bloch) al principio responsabilità (Hans Jonas). Ma domando: perché i due poli non possano coesistere? Perché la rivoluzione debba essere universalista e non relativista? Un dubbio che non sfiora Berti che rincara la dose: «Ecco dunque l’errore micidiale dei rivoluzionari perché un atto, qualsiasi atto, che pretenda di essere risolutore è intrinsecamente irrazionale e, di fatto, totalitario», ma, mi sembra doveroso sottolinearlo, non viviamo nell’Ottocento o nella prima metà del Novecento e non vedo in giro tanti «rivoluzionari» che vogliano compiere «l’errore micidiale».

Berti, però, è sicuramente ondivago, così dopo queste affermazioni perentorie arrivano intuizioni profonde: «l’anarchismo deve sopprimere qualsiasi configurazione determinata della società futura in termini economico-sociali e, più in generale, qualsiasi configurazione “futuristica” della propria azione». Qui sta il senso del libro di Berti che viene raffermato proprio nelle ultime righe: «Sono circa vent’anni che ripeto con forza la necessità di affrontare questo problema (il problema di una scienza politica anarchica). Se veramente si pensa che la differenza tra la liberal-democrazia, le dittature, i totalitarismi, et similia sia solo una differenza di forma e non di sostanza, allora gli anarchici si mettano il cuore in pace perché resteranno sempre subalterni. Se invece vogliono ritornare a incidere sul presente, devono seriamente – molto seriamente – confrontarsi con il liberalismo e la democrazia, unico modo per far uscire l’anarchismo dalla subalternità politica che da settant’anni lo tiene relegato ai margini della storia».

Insomma, questo di Berti è un libro destinato a lasciare un segno profondo nelle riflessioni sull’anarchismo di oggi e, soprattutto, di domani. Sia per chi concorda con le sue analisi sia per chi le critica più o meno aspramente e anche chi scrive questa recensione, come credo si sia capito, ha critiche, si spera non irrilevanti, da muovere alle riflessioni dell’autore, ma c’è una cosa importante da sottolineare: è grazie anche a libri come questi che l’anarchismo può rientrare nel discorso politico-sociale attuale. 

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