Che quel 15 gennaio 1993 non sarebbe stato un giorno come tanti, lo capii subito. Era passata una settimana dall’omicidio di mio padre, Beppe Alfano, un giornalista ‘rompiscatole’ che aveva scoperto che il boss Nitto Santapaola trascorreva la sua latitanza proprio a pochi passi da casa nostra, a Barcellona Pozzo di Gotto. Per motivi di sicurezza, io e la mia famiglia fummo costretti a lasciare tutto e ad andare via da lì. Arrivammo a Palermo proprio quel giorno, il 15 gennaio del 1993. Mentre lo Stato, finalmente, catturava il numero uno di Cosa Nostra, Totò Riina, strappato alla sua latitanza dopo 24 anni.

Mi sembrò un segno del destino, una rivincita nei confronti della stessa mafia che aveva voluto la morte di mio padre e quella di decine di altri uomini dello Stato o semplici padri, mariti, figli che avevano scelto di stare dalla parte della legalità. La lista degli omicidi ordinati da Riina contro le istituzioni e gli organi d’informazione era ed è lunghissima: dal procuratore Pietro Scaglione al giudice Cesare Terranova; da Rocco Chinnici a Giovanni Falcone; da Paolo Borsellino a Piersanti Mattarella. E ancora, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Boris Giuliano, Ninni Cassarà, Beppe Montana, Mario Francese, Libero Grassi. Si fa prima a contare gli ergastoli che pendono sulla testa di questo sanguinario e feroce boss della mafia, un padre che non ha nemmeno visto crescere i suoi 4 figli, degni di una tradizione che li ha visti spesso balzare agli onori della cronaca per fatti di mafia. Senza mai rinnegare pubblicamente ed esplicitamente le azioni criminali del padre.

Sono passati vent’anni da quella mattina, che tutti abbiamo vissuto come la vera e definitiva liberazione dal ricatto, dalla violenza e dall’arroganza della mafia. Ma non era così, purtroppo. Ancora oggi la verità sui morti e sulle stragi di questo Paese, tarda ad arrivare. Ancora oggi siamo costretti a convivere con l’infiltrazione della criminalità organizzata in ogni forma e in ogni aspetto della nostra quotidianità. Ancora oggi siamo costretti a combattere per una giustizia giusta, vera, in cui chi ha sbagliato paghi. E ci aggrappiamo al processo sulla Trattativa tra Stato e Mafia, avviato poche settimane fa a Palermo, per sapere come sono andate veramente le cose. Anche lì, anche negli atti di questo processo c’è il nome di Totò Riina. Il boss corleonese è infatti  tra gli 11 imputati per i quali è stato chiesto il rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa e violenza o minaccia a corpo politico dello Stato.

Sono passati vent’anni da quella mattina assolata, che vide atterrare a Palermo da Torino il nuovo capo della Procura di Palermo, Giancarlo Caselli. Un magistrato integerrimo, chiamato a dare il suo contributo nella lotta alla mafia in un momento particolarmente difficile per questa terra, che non si era ancora rialzata dalle stragi del ‘92. Il suo arrivo in Sicilia, proprio nel giorno della cattura dell’allora superlatitante, dev’essere stato un segno del destino anche per il giudice Caselli. Che molto presto sarebbe entrato nei cuori dei palermitani onesti.

Totò Riina oggi è un uomo di 82 anni, che ha passato metà della sua vita nella latitanza e l’altra metà nelle celle delle carceri che lo hanno ospitato in questi ultimi 20 anni. Attualmente è detenuto nel carcere milanese di Opera, in regime di 41 bis. Non ha mai perso l’aplomb del boss, nè sembra interessato a perderlo. Resta il custode di una verità che, ci auguriamo, non dovremo aspettare per altri vent’anni.

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