La campagna elettorale di Monti è iniziata con due bugie, che alimentano un equivoco colossale. Che la sua sia una formazione ‘civica’ – che non viene cioè dalla politica ma dalla società civile – e che sia ‘terza’ rispetto alla destra e alla sinistra.

Eppure l’ex rettore della Bocconi è un sobrio e rispettabile uomo politico di destra, che si è messo legittimamente alla guida di una formazione politica di destra. In qualsiasi paese tale ovvietà non sarebbe neanche oggetto di discussione, e non certo perché destra e sinistra siano categorie superate (anche se a volte vengono chiamate diversamente). Da noi invece, dopo venti anni di occupazione del centrodestra da parte di una banda di comici e di estremisti, qualunque entità politica diversa da Berlusconi può sembrare moderata.

È un equivoco in cui non bisogna cadere. Perché a destra e sinistra corrispondono (o dovrebbero corrispondere), tra le altre cose, interpretazioni diverse della crisi e proposte alternative di politica economica, da cui, nel punto in cui siamo arrivati (la recessione, lo stress fiscale, e la crescente invasività della governance europea) discendono due visioni diverse del ruolo del settore pubblico nell’economia, soprattutto riguardo lo stato sociale. Questioni che influenzano concretamente, in alcuni casi dolorosamente, la vita quotidiana di milioni di cittadini.

Il primo punto dell’Agenda Monti prescrive la piena implementazione della ‘nuova strategia europea’. Significa il rispetto acritico e pedissequo del fiscal compact, essenzialmente. Con la tecnica dello straw man argument (attribuire all’avversario posizioni che non ha mai espresso, per poi spostare il confronto sulla confutazione di tali argomenti), l’Agenda sostiene che i detrattori delle regole europee oppongono resistenza alla ulteriore cessione di sovranità nazionale perché vogliono preservare una presunta “eccezione italiana” (“l’Italia è diversa”, “in Italia queste cose non si possono fare”, “il progetto europeo nel suo complesso è socialmente dannoso”).

Coloro che a sinistra criticano il fiscal compact sarebbero dei conservatori insomma, anziché essere preoccupati delle conseguenze che i due decenni di politiche di austerità che ci attendono potranno avere sulla crescita e sulle disuguaglianze. Il trattato prevede infatti l’obbligo per i paesi con un debito pubblico superiore al 60% del Pil di rientrare entro tale soglia entro 20 anni, a un ritmo pari a un ventesimo dell’eccedenza in ciascuna annualità.

Si tratta di 45-50 miliardi di risparmi l’anno, a seconda della congiuntura. E poiché il Pil durante una recessione scende, e il rapporto debito/Pil sale, in periodi di recessione (come quello attuale) si richiederà di risparmiare di più, accentuando la fase depressiva del ciclo economico. Per avere dei termini di paragone: la spending review, che implica tagli già molto dolorosi alla sanità pubblica, porta risparmi per 26 miliardi di euro in 3 anni, meno di 10 miliardi l’anno, in media. Oppure, si può considerare che, nonostante l’avanzo primario (la differenza tra entrate e uscite nel bilancio dello Stato, al netto della spesa per interessi), sia stato quasi costantemente positivo fino al 2009, il debito si è ridotto di 20 punti in 14 anni, dal picco del 1995 fino al 2008. Ora, in una fase recessiva, ci viene richiesto di ridurlo di circa 66 punti in 20 anni.

Una politica suicida insomma, che ha portato Luciano Gallino a fare previsioni ragionevolmente nefaste su Repubblica: “una generazione o due di miseria per l’intero Paese; aspri conflitti sociali; discesa definitiva della nostra economia in serie D”.

In un contesto fiscale del genere, sarà estremamente difficile mantenere un livello di qualità accettabile dei servizi pubblici essenziali. È facile prevedere che i tagli più duri colpiranno i servizi che possono essere profittevolmente forniti anche dal settore privato, ai quali verrà demandata la loro offerta in dosi crescenti. Qui si sostanzia la natura politica e ideologica, di destra, dell’accettazione acritica delle regole europee: essa comporta infatti una costante e inesorabile riduzione dell’intervento pubblico nell’economia, con un progressivo smantellamento dello stato sociale a favore del settore privato. Menò sanità, meno istruzione, meno assistenza, per cominciare.

Diversamente da quanto affermano i sostenitori di Monti, ritenere che tale corso di eventi non sia ineluttabile non significa essere contrari all’Europa, né tanto meno conservatori. Né essere europeisti implica l’accettazione acritica delle nuove regole fiscali. Che non sono certo politicamente ‘neutre’. Al contrario, sono il frutto dell’evoluzione dei rapporti di forza tra gli Stati – e, all’interno degli stati, tra le categorie sociali (e le rispettive rappresentanze politiche) – che si sono sviluppati in Europa nell’ultimo decennio.

Certo, molti aspetti del comportamento pubblico di Monti lo fanno sembrare un ‘moderato’, rispetto a chi finora ha preteso di rappresentare i moderati. Esecrare la tendenza italica a vivere le tasse come un furto legalizzato e mostrare rispetto per le istituzioni. Non esaltare mafiosi come fossero eroi popolari e non organizzare festini con prostitute. Cose ovvie che denotano quel livello minimo di civiltà ed educazione che dovrebbe essere richiesto a qualsiasi candidato a una carica pubblica. Che però non fanno di Monti un soggetto a-politico super partes, né tanto meno un progressista.

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