“C’era una volta un prigioniero. No: c’era una volta un bambino. Meglio ancora: c’era una volta una Poesia. Anzi, facciamo così: C’era una volta un bambino che aveva il papà prigioniero.
 E la Poesia? – direte voi – cosa c’entra? 


La Poesia c’entra perché il bambino l’aveva imparata a memoria per recitarla al suo papà, la sera di Natale. Ma, come abbiamo spiegato, il papà del bambino era prigioniero in un paese lontano lontano. 
Un paese curioso, dove l’estate durava soltanto un giorno e, spesso, anche quel giorno pioveva o nevicava. Un paese straordinario, dove tutto si tirava fuori dal carbone: lo zucchero, il burro, la benzina, la gomma. 
Un paese senza l’uguale, dove tutto quello che è necessario all’esistenza era calcolato con così mirabile esattezza in milligrammi, calorie, erg e ampère, che bastava sbagliare un’addizione – durante il pasto – per rimanerci morti stecchiti di fame”. 


Alla sera della Vigilia il bambino continuava a fissare una sedia vuota: quando i papà non ci sono il Natale non è più né felice né spensierato. Allora Albertino, così si chiamava, recitò la sua poesia:
 “Din don dan la campanella
 questa notte suonerà 
e una grande, argentea stella su nel ciel s’accenderà”. Alla fine la finestra si spalancò e la Poesia, trasformata in un uccellino, volò via.
 “Dove vuoi che ti porti?” domandò il Vento.
”Portami nel Paese dove è adesso il papà del mio bambino”, disse la Poesia.
 “Stai fresca!” rispose il Vento, “Perché prendano anche me e mi mandino al lavoro obbligatorio a far girare le pale dei loro mulini a vento! Niente da fare: scendi! “
Ma la Poesia tanto pregò che il Vento acconsentì a portarla almeno alla frontiera. “Faceva tanto freddo che la povera poesiola aveva tutte le rime gelate e non riusciva neppure a spiccare il volo. 
”Dove vai?” le chiese un vecchio il quale, con uno stoppino legato in cima a una pertica, cercava invano d’accendere qualche stellina nel cielo nero.
 “Al campo di concentramento”, rispose la Poesia senza fermarsi.
 “Ohimè”, sospirò il vecchio, “internano anche la Poesia, adesso?”. Alla fine il coraggio e l’amore di Albertino gli faranno riabbracciare il suo adorato papà.

Giovannino Guareschi scrisse “La favola di Natale” a Sandbostel, nel campo dove era internato. Arturo Coppola, compagno di prigionia dello scrittore, musicò la fiaba e diresse l’orchestra e il coro degli internati per una rappresentazione che si svolse in una baracca del campo la sera di Natale del 1944: “Per l’umidità i violini si scollavano, perdevano il manico”, scrisse dopo la guerra Guareschi. “Le voci faticavano a uscire da quella fame vestita di stracci e di freddo”. Eppure la fiaba di Albertino restituì un sorriso ai prigionieri. E speriamo anche ai nostri lettori. Che sotto l’albero ci sia un po’ di speranza: Buon Natale.

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