Da Brescia comandava, a 800 km dal suo feudo di Ottaviano, comune in provincia di Napoli. Biagio Bifulco, già condannato per camorra in passato, era finito in galera nel 2007. Nel 2008 arriva nella città lombarda in libertà vigilata e ci resta due anni. Bifulco ora è di nuovo in cella, finito in manette nell’operazione Fulcro, 28 le misure di arresto, coordinata dalla distrettuale antimafia di Napoli (procuratore aggiunto Rosario Cantelmo), condotta dalla Dia partenopea, guidata dal capo centro Maurizio Vallone.

Per la Procura antimafia è il reggente, dal 2005, del clan Fabbrocino, dopo l’arresto di Mario, il capoclan. A Brescia arriva dopo aver dimostrato al giudice di potere essere assunto alle dipendenze della Faville, una società di abbigliamento che in realtà lui controllava, finita sotto sequestro nell’operazione eseguita ieri. Il boss, a Brescia, ha intrecciato le vecchie relazioni, summit e riciclaggio in terra lombarda. E’ il 27 maggio 2009 quando spiega come si è evoluto l’uomo di rispetto. I mastini della Dia gli hanno piazzato le cimici pure in cucina e ascoltano: “ I figli miei – spiega Bifulco – non devono essere fessi, devono andare a scuola, ma devono imparare ad usare “questa”( probabilmente mostra in visione ad Avino una pistola)”.

E i figli Biagio Bifulco, i gemelli che coltivano amicizie altolocate, li ha mandati a studiare alla Luiss. Studio, ma rispetto. Alla fine alla Roma bene i pargoli possono raccontare che il padre è pur sempre imprenditore. Camorrista, ma imprenditore a capo di una holding, con società operanti nel settore della moda, abbigliamento, supermercati in Abruzzo, aziende agricole in Umbria, immobili in mezza Italia. Nell’operazione sotto sigillo sono finiti beni per 120 milioni di euro tra Lombardia, Campania e altre cinque regioni attraverso una rete di prestanome.

Ma lui i professionisti ne conosce. Ha una frequentazione con Francesco Iervolino, alias Ciccio, a capo del cda dell’azienda farmaceutica Defarma spa, con sede a Brescia. Tra gli arrestati figura anche l’avvocato Salvatore Ambrosino riferimento del clan nel settore delle aste. In una intercettazione Ambrosino parla con Gennaro Annunziata, un altro degli arrestati. Rispetto ad un’asta alla quale volevano partecipare, dice: “Questo è di Salerno è un magistrato e non si può chiamare”. La toga era di fuori zona. La risposta di Annunziata è inquietante: “ Io lo faccio chiamare da un altro magistrato”. L’intercettazione, da questo punto in poi, viene omissata, coperta.

Il clan Fabbrocino, un passato federato nella nuova famiglia di Carmine Alfieri contrapposto alla Nco di Raffaele Cutolo, fa paura a tutti. Di quella vecchia guerra arriva l’eco anche oggi. Nelle carte c’è la storia di un cutoliano Giuseppe Radunanza, che vive “murato in casa”, teme di essere ucciso per l’antica fedeltà a Cutolo, il professore di vesuviano. Due portoni vigilati, una camera da letto con una porta in ferro e quando scende si traveste da prete. Radunanza porta i segni dell’ultima volta che gli spararono addosso, ha un occhio di vetro, il suo lo perse dopo l’agguato.

Torniamo agli affari. Se il clan ricicla deve anche guadagnare. Mercato fiorente quello del pizzo. Il racket viene imposto a tutti, si arriva anche al 30%. Il 3,5% viene fissato per le ditte che avrebbero dovuto realizzare la superstrada 268. Anche Aniello Aliberti, presidente del gruppo Agria Spa, ex patron della Salernitana calcio, subisce. E quando viene interrogato parla di semplici prestiti. Di più, Aliberti, ad un certo punto, trova la soluzione. “Si appalesano – scrive il Gip Egle Pilla – in modo fin troppo evidente le bugie dette in sede di sommarie informazioni da Aniello Aliberti il quale, non solo ha negato di essere stato sottoposto a richieste estorsive, ma ha anche sottaciuto l’intervento in suo favore fatto da Mario Fabborcino”.

Il clan è anche politica e professionisti come l’avvocato Pasquale Ciccarelli. E’ uno di loro, arrestato per camorra. E’ marito della notaia Ragosta “alle cui prestazioni professionali il clan ha fatto in più di una circostanza capo”. Pasquale Ciccarelli, un passato nella giunta di centrosinistra, alle comunali del 2009 si candida per il centrodestra (Pdl-Udc-Mpa) alla guida del comune di Ottaviano. In campagna elettorale lui stesso si fa promotore di contattare criminali conclamati per ottenerne il sostegno. Quando decide di candidature due guardie giurate alla reazione preoccupata del camorrista ‘cosa diremo ai familiari degli arrestati’, Ciccarelli trova la soluzione: omettere l’indicazione guardie carcerarie e rassicurare i parenti dei boss descrivendo l’utilità dei suoi candidati: “ Io sono guardia carceraria! la famiglia del detenuto viene da me ed io mi metto a disposizione”.

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