“No, grazie. Non trovo giusto che chi fa l’arbitro o il guardalinee si tolga la giacchetta per indossare la maglietta di una delle squadre in campo”. Tanti anni fa il pm di Mani Pulite, Piercamillo Davigo, rispose più o meno così a un partito di centrodestra che gli chiedeva di candidarsi alle elezioni. Questa frase di Davigo mi è tornata in mente mentre leggevo le notizie che danno per possibile, dopo molti tentennamenti, la candidatura del pubblico ministero antimafia Antonio Ingroia alle prossime elezioni politiche.

Non, intendiamoci, perché pensi che debba esistere una legge per impedire ai magistrati di candidarsi. Chi indossa una toga è un cittadino come gli altri, con i diritti di tutti gli altri: di questo sono certo. Così come sono convinto che un Ingroia in Parlamento, o al governo, darebbe garanzie di onestà e competenza superiori a quelle della maggioranza dei cosiddetti rappresentanti del popolo italiano.

Ritengo però che coloro i quali svolgono pubblicamente – e con grande seguito – funzioni di controllo (pure i giornalisti, o almeno quelli con la schiena dritta) dovrebbero attenersi anche a delle norme non scritte. A regole imposte solo dalla propria coscienza, molto più dure rispetto a quelle riservate al resto dei cittadini. Tra queste c’è, a mio parere, il dovere di far passare un congruo e lungo lasso di tempo tra le inchieste, gli articoli o i programmi televisivi che hanno dato a una persona notorietà (e credibilità) e il proprio impegno elettorale.

Inutile girarci intorno. Non è difficile prevedere che cosa accadrà nel caso in cui Ingroia lasciasse davvero il suo incarico Onu per candidarsi. Moltissimi elettori, in perfetta buona fede, penseranno che le sue importanti indagini sui rapporti mafia e politica siano state condotte solo per farsi pubblicità e per preparare il terreno alla nuova avventura di partito. Non importa che questo non sia vero. Intanto in milioni riterranno che le cose stiano così. E chi sostiene, in perfetta malafede, che nel nostro Paese quasi nessuno svolge le proprie funzioni in modo del tutto disinteressato, avrà altre frecce al proprio arco. Sono poi pressoché scontate le conseguenze, pessime, sulla credibilità della magistratura e su quella dei pm palermitani, in particolare, oggi impegnati nell’udienza preliminare sulla trattativa Stato-mafia. Così come è inevitabile una sfiducia ancora più crescente in tutte le istituzioni.

Certo, è vero che anche le regole non scritte, come tutte le regole, possono avere delle eccezioni. Quando, per esempio, si candidò Luigi de Magistris, è difficile negare che l’attuale sindaco di Napoli avesse molte alternative di fronte a un intervento del Csm teso a stroncargli la carriera. Michele Santoro, poi, dopo essere stato escluso dalla Rai, aveva per me non solo il diritto, ma anche il dovere di andare a testimoniare al Parlamento Europeo cosa stava accadendo all’informazione italiana.

Il caso di Ingroia appare però diverso. Gli attacchi nei suoi confronti da parte di poteri fortissimi e pervasivi sono stati sì duri e incessanti. Ma il sistema ha retto. Male, ma ha retto. Ingroia tra mille difficoltà ha potuto condurre il suo lavoro. Le decisioni sconcertanti della Corte Costituzionale, le prese di distanze della Anm, non hanno fermato le sue indagini. Tutto, è vero, è stato difficile. Più difficile. Ma quando ci si impegna a applicare solo la legge senza guardare in faccia a nessuno, non si può pensare di raccogliere applausi. Anche perché in molti, prima di Ingroia, hanno raccolto tonnellate di tritolo. Per questo, se si vuole davvero rifondare il Paese, sarebbe bene soffermarsi prima sui propri doveri e solo dopo sui diritti. Cominciando da quelli che ciascuno di noi sente di avere, guardandosi ogni mattina allo specchio.

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