Lo shale gas britannico è di nuovo realtà. Con una decisione a lungo meditata, il Ministero dell’energia del Regno Unito ha infatti posto fine a una moratoria in vigore da un anno e mezzo restituendo alla compagnia privata Cuadrilla Resources il permesso di effettuare esplorazioni nella regione del Lancashire, nell’Inghilterra nord-occidentale. La Cuadrilla, l’unica società britannica e detenere l’autorizzazione per una simile attività, aveva dovuto fermare gli impianti circa 18 mesi fa quando i dintorni della cittadina di Blackpool erano stati investiti da una serie di scosse sismiche provocate dalle operazioni di ricerca ed estrazione. Un evento, quest’ultimo, che aveva scatenato le proteste degli ambientalisti, da sempre molto scettici circa la “sostenibilità” delle attività estrattive di questo particolare tipo di risorsa.

Imprigionato nelle profondità rocciose, lo shale gas (altrimenti detto gas di scisti) richiede un particolare processo di estrazione basato sul cosiddetto hydrocracking, ovvero l’iniezione di acqua o altre sostanze ad altissima pressione. Un’operazione costosa che, secondo i critici, rischierebbe di produrre pericolosi sommovimenti di terreno (da cui le possibili scosse sismiche) e inevitabili contaminazioni (nell’hydrocracking si mescolano acqua e composti chimici di difficile smaltimento). Ma anche un’attività particolarmente interessante soprattutto per quei Paesi che ospitano ingenti quantitativi di shale in contrapposizione con gli assai più modesti giacimenti di gas tradizionale. L’anno passato, la Us Energy Information Administration ha sostenuto che i giacimenti di shale Usa potrebbero ammontare a 24.400 miliardi di metri cubi, contro i 7.700 di gas naturale. La Cina arriverebbe a 36mila miliardi (contro i 3 mila circa di gas naturali), l’Argentina a 21.900, Sudafrica e Australia a 13.700, la Polonia a 5.300.

Il totale delle potenziali riserve di shale gas del Regno Unito appare ancora incerto. Secondo quando riferito dalla stessa Cuadrilla, citata dal Guardian, la Gran Bretagna potrebbe ospitare nelle sue profondità qualcosa come 5.600 miliardi di metri cubi ma la vera questione, ha sottolineato il quotidiano britannico, è tuttora relativa all’effettiva disponibilità della risorsa. E qui le stime scendono di molto, poiché, spiega ancora il Guardian, la quantità di gas materialmente estraibile potrebbe corrispondere ad appena il 5% del totale. Il che, è bene sottolinearlo, garantirebbe comunque un risparmio sull’importazione energetica di centinaia di miliardi di sterline nel corso dei prossimi decenni.

Proprio in un’intervista al Guardian, un paio di settimane fa, il ministro dell’Energia Ed Davey aveva frenato gli entusiasmi dimostrandosi molto cauto sul futuro della risorsa. Lo shale gas, aveva spiegato, potrebbe fornire un contributo importante alla sicurezza energetica nazionale di fronte alla riduzione della disponibilità del gas del mare del Nord, ma le promesse sulle sue potenzialità potrebbero essere eccessive. “Si dice che ne abbiamo grandi riserve – aveva precisato nell’occasione – , ma la verità è che nessuno lo sa”. Senza contare il tempo previsto per avviare una grande produzione (“ci vorranno ancora anni”) e il problema dell’impatto sui prezzi pagati dai consumatori finali.

Secondo quanto annunciato dal Committee on Climate Change del governo britannico, ripreso ieri dal Telegraph, se il Regno Unito dovesse continuare a puntare sul gas (tradizionale e shale) i costi delle bollette per ciascuna famiglia dovrebbero aumentare di 600 sterline entro il 2050. Se gli investimenti principali fossero diretti al contrario sulle rinnovabili e sul nucleare, gli aumenti potrebbero essere di appena 100 sterline entro il 2020 e di 200 entro il 2050. Nello scenario più ottimistico, riferisce ancora il quotidiano, lo shale potrebbe compensare appena il 10% della domanda di gas entro il 2030.

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