E’ il Bruce Willis della rivoluzione. Uno dei duri del chavismo della prima ora. Accanto al grande capo anche nella lunga notte del golpe dell’11 aprile 2002, mentre tutto sembrava perduto e si imboscavano in tanti. Cinquant’anni, due metri, cento chili, Nicolás Maduro – ex batterista del gruppo rock Enigma – è il rottweilwer di Hugo Chávez. Dopo avergli fatto fare una fulminea carriera a grandi balzi tra ruoli parlamentari e incarichi di fiducia, il presidente l’ha indicato al popolo venezuelano come suo successore, qualora l’operazione chirurgica per evitare l’espandersi di un tumore non dovesse riuscire.

“Se succedesse qualcosa, Nicolás concluderà il mio mandato”, ha detto in tv stringendo il crocefisso in mano. “Votate Maduro, ve lo chiedo dal profondo del mio cuore”, ha chiesto annunciando un nuovo e imminente ricovero all’Avana. L’11 ottobre, ottenuto con il 54% dei voti un nuovo mandato di governo fino al gennaio del 2019, aveva preparato la mossa nominando Maduro suo vicepresidente. Secondo la Costituzione, in caso di improvvisa necessità, la reggenza spetterà a lui. “Para donde va, el autobusero Nicolás!“, è stata la frase di designazione.

A Chávez piace molto ricordare che il suo fedelissimo era l’autista degli autobus che integrano il servizio di metropolitana di Caracas. Lì ha fatto la gavetta. E’ stato il capo agguerrito del sindacato della metro. Ha partecipato, da chavista, all’Assemblea costituente. Eletto in parlamento nel 2000, sei anni dopo è arrivato il grande salto: ministro degli esteri. E’ sempre stato un luogo infido per Hugo Chávez la Casa amarilla, la Farnesina venezuelana, nelle cui pieghe sono rimasti infilati, dopo quattordici anni di governo, silenziosi oppositori. Nonostante gli innumerevoli repulisti, sono ancora molti i superstiti di Acción democratica e Copei, i due grandi partiti che si sono alternati per decenni al potere prima dell’avvento dell’era chavista, ad aggirarsi per i corridoi . “Ci mettiamo Nicolás tra i vampiri”, disse Chávez la sera prima del rimpasto di governo del 2006. La diplomazia vera, quella del petrolio, l’ha sempre gestita lui aprendo e chiudendo il rubinetto delle forniture agli alleati fuori e dentro l’America latina. L’altra, quella che cuce e scuce le relazioni sul fondale del business dell’energia, l’ha affidata per sei anni al fedele Nicolás. “Il petrolio è per noi uno strumento indispensabile, lo usiamo per creare nuove relazioni politiche basate su nuovi equilibri. Prima della rivoluzione era solo l’escremento del diavolo – disse a chi scrive Maduro durante un’intervista da neoministro agitandosi nella sua poltrona davanti a un piatto di zuppa fumante nel suo ufficio della Casa Amarilla – ci ha subordinato agli interessi degli Stati Uniti. Da strumento di dipendenza è diventato uno strumento di liberazione economica per il nostro Paese e per i fratelli latinoamericani”.

Dicono di lui che quando si presenta alle riunioni con le mani in tasca e il vocione da stadio è inutile andargli sotto di fioretto. Ma non è uno di quelli che risolvono la discussione a pugni sul tavolo. Basta non toccargli Fidel Castro. Su quello non transige. Cita a memoria il grande vecchio della rivoluzione cubana come neanche Hugo Chávez la prima volta che tornò dall’Avana da presidente eletto. “Quello che ha fatto Fidel nei confronti del Venezuela non lo ha fatto nessuno nel mondo – ripete spesso con aria adorante – lo rispettiamo e abbiamo chiara coscienza del ruolo che ci indica per i prossimi anni”. Con l’immancabile ritratto di Simòn Bolìvar “el libertador” dietro alla scrivania e le citazioni di Fidel Castro e Hugo Chávez a portata di mano, Maduro si appresta ora a fare la difficile parte dell’erede designato. Sua moglie, Cilia Flores, avvocato, anche lei chavista della prima ora, ha ottime relazioni, una lunga esperienza e molto potere. E’ stata presidente del Parlamento dal 2006 al 20011 e vicepresidente del partito socialista unito del Venezuela, il partito di governo. Un anno fa Chávez l’ha nominata procuratore generale della Repubblica.

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