Comincia a diffondersi in Italia un nuovo approccio di studio del mondo femminile: l’intersezionalità. Si tratta di una pratica che viene dall’estero – da Stati Uniti e Nord Europa – e che ritiene non esista un solo modo per considerare le istanze e i problemi delle donne. Non esistono infatti “le donne” come categoria astratta ma individui con diverse peculiarità e che possono anche essere considerate – a seconda dei casi – come immigrate, disabili, anziane, giovani, precarie, povere, ricche, disoccupate, lesbiche, e molto altro. Non può quindi esistere un solo femminismo e una sorellanza universale, ma più femminismi. All’università di Bologna, il collettivo Bartleby organizza fino al marzo 2013 una serie di incontri sull’intersezionalità (nelle aule di via Zamboni 38 e di via Centotrecento 18) che valgono anche come crediti universitari.

Tante le docenti tra cui Sabrina Marchetti, che è anche curatrice, con Jamila M.H Mascat e Vincenza Perilli, di “Femministe a parole – grovigli da districare” edito da Ediesse. Un volume dove ci sono due voci dedicate proprio all’intersezionalità. “Pur essendo diffusa negli Stati Uniti fin dagli anni Ottanta – spiega Marchetti – l’intersezionalità è un approccio che sta prendendo piede soltanto ora da noi. Pensiamo che il primo libro sul tema è stato pubblicato nel 2009. Si tratta di una pratica che all’estero è ormai entrata in uso. Dire, in ambito accademico, dove si fa politica o attivismo, ‘parliamo di un argomento in modo intersezionale’ è diventato quasi un proforma. L’idea dell’intersezionalità è questa: se ho davanti a me una donna malata di Aids, che cosa riesco a vedere di lei? Vedo che è povera, magari. E poi che è nera. E che ha avuto comportamenti sessuali a rischio. Quindi in lei ci sono diversi aspetti da considerare. Il fatto che sia donna o che sia nera è solo uno dei tanti”.

Mentre i femminismi del passato vedevano le diverse peculiarità delle donne come comparti stagni, l’intersezionalità permette di capire come le diverse caratteristiche si incastrano tra loro e si influenzano. “Sempre tornando all’esempio della donna malata di Aids – continua Marchetti – possiamo dire, ad esempio, che se non fosse stata nera non sarebbe stata povera. E se non fosse stata povera non avrebbe avuto comportamenti sessuali a rischio e quindi non avrebbe preso l’Aids. Il suo essere soggetto bisognoso e oppresso è il risultato delle sue diverse identità. E per aiutarla a uscire dalla condizione in cui si trova è necessario agire su più fronti”. L’intersezionalità non toglie specificità alle singole battaglie – delle donne, immigrate, lesbiche, ad esempio – ma offre la chiave di volta teorica per portare tutte le istanze ad avere pari merito. Essere una femminista intersezionale significa avere bene in mente il fatto che il proprio approccio è situato, ovvero non è imparziale ma condizionato dalle diverse caratteristiche che si incarnano.

Diverse caratteristiche che possono essere comprese anche leggendo “Femministe a parole”, una sorta di dizionario realizzato da 44 autrici che non ha alcuna pretesa di essere esaustivo nei confronti dell’universo del femminismo. “L’idea piuttosto – come si legge nell’introduzione- è stata quella di coinvolgere donne con esperienze, età, provenienze, competenze e vedute diverse, per invitarle a misurarsi con quelle parole e quegli argomenti su cui, per le femministe, pronunciarsi è diventato sempre più complicato. Abbiamo chiesto loro di discutere quei temi che investono i movimenti e la produzione teorica delle donne, e insieme animano il dibattito politico, dando luogo spesso a semplificazioni – e talvolta anche a complicazioni – dannose”. E’ interessante, come spiega Marchetti, il fatto che molte delle autrici si siano formate all’estero. “Una generazione di giovani studiose, tra i 30 e i 40 anni, andate via, tornate e poi magari partite di nuovo (oppure rimaste), che sono state in grado di creare un’osmosi tra quello che accade fuori e dentro l’Italia”. 

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