Un decreto legge accorda incentivi per interventi destinati a ridurre l’uso di combustibili per la generazione di calore. Il costo sarà scaricato sulle bollette del gas, con un danno alla competitività delle imprese italiane, già penalizzate dai sussidi concessi al fotovoltaico.

di Giorgio Ragazzi* (lavoce.info)

Il ministro Passera ha recentemente presentato il testo di un decreto per incentivare la coibentazione degli edifici, le pompe di calore, i collettori solari termici e altri simili interventi intesi a ridurre l’uso di combustibili per la generazione di calore. Si prevede che l’incentivo, erogato dal Gse (Gestore servizi energetici), copra il 40 per cento del costo (entro limiti massimi specifici per ogni intervento). La spesa complessiva annua è fissata in 200 milioni per interventi delle amministrazioni pubbliche e 700 milioni per investimenti di privati: raggiunti questi limiti “si vedrà”. Poiché gli incentivi vengono diluiti per lo più su cinque anni, una spesa annua di 900 milioni implica che si siano concessi incentivi per circa 4,5 miliardi. Il Gse finanzierà l’intervendo scaricando il costo sulle bollette del gas.

Metodo che lascia a desiderare

Il decreto suscita molte perplessità, sia sul metodo che sul merito. È accettabile che una spesa tanto rilevante venga decisa con decreto ministeriale? I ricarichi sulle bollette del gas che finanzieranno la spesa sono in sostanza un’altra imposta indiretta e come tale non dovrebbe essere approvata per legge dal Parlamento? È accettabile che la determinazione delle aliquote da applicare sulle bollette del gas (“con criteri di regressività”) venga demandata dal ministro all’Autorità per l’energia? Perché gli oneri dovrebbero gravare solo sul consumo del gas e non anche sui consumi di altri combustibili o sulla fiscalità generale? Se la spesa fosse sottoposta all’approvazione del Parlamento, il suo merito verrebbe correttamente valutato nel confronto con altre possibili destinazioni di 900 milioni l’anno, ed emergerebbe anche l’implicito ulteriore aumento della pressione tributaria. Con l’escamotage di addossare i costi degli incentivi alle bollette, come già avvenuto per la disastrosa vicenda del fotovoltaico, si creano in sostanza  “gestioni fuori bilancio” amministrate dal governo senza il controllo del Parlamento, senza trasparenza dei costi per la collettività e senza valutazione delle priorità nella spesa pubblica.

Molta burocrazia per piccoli importi

Quanto al merito, colpisce che si intenda sostituire alla logica del mercato un dedalo di complesse e sofisticate normative nel più contorto burocratese (il decreto ha 38 pagine). Consideriamo ad esempio la coibentazione di edifici, la sostituzione di infissi o l’istallazione di sistemi di ombreggiamento (persino questi sono previsti). La loro convenienza o la loro opportunità dipenderà da moltissimi fattori, quali l’ubicazione dell’edificio (in montagna o al mare, esposto a nord o a sud?), la qualità dei muri, lo stato degli infissi esistenti, l’utilizzo dei locali, i costi di sostituzione e così via. Tutti aspetti che possono essere valutati solo dal diretto interessato: perché non lasciare a lui la valutazione di convenienza? Gas ed elettricità sono già pesantemente tassati e quindi l’incentivo fiscale al risparmio c’è già; se non lo si ritiene sufficiente, che si aumenti ancor più la tassazione. Il decreto, invece, cerca di sostituire alla scelta di mercato una serie complicata di norme amministrative per approssimare le condizioni di convenienza, ad esempio dividendo il paese in sei zone climatiche con differenti requisiti (arbitrari) per l’ottenimento degli incentivi.
Quand’anche la corresponsione di un qualche incentivo fosse economicamente giustificata, la procedura amministrativa non consente ovviamente alcun confronto tra costi e benefici: a tutti gli interventi che qualificano si “regala” il 40 per cento del costo. Non sarebbe stato assai meglio, semmai, limitarsi a introdurre un incentivo fisso sull’acquisto di pannelli solari termici?
Poiché i singoli investimenti possono essere anche di importi minimali (non c’è limite minimo e si incentiva persino la sostituzione di scaldacqua elettrici) si potrà avere un grandissimo numero di richieste con conseguente enorme mole di procedure amministrative e relativi costi. Per ogni intervento si richiede l’asseverazione di tecnici abilitati e varie altre documentazioni, tra cui la certificazione della prestazione e della classe energetica raggiunta a fine lavori. Anche questi costi, che possono essere molto elevati in rapporto a piccoli investimenti, vengono coperti dall’incentivo, al 100 per cento per le amministrazioni pubbliche e al 50 per cento per i privati: pertanto il costo a carico del Gse può salire ben oltre il 40 per cento dell’investimento.
Si creeranno certamente molti nuovi posti di lavoro, per tecnici addetti alle valutazioni e certificazioni energetiche, per ispettori e per tutta la mole di lavoro amministrativo nel Gse e in altri enti pubblici. Lavoro al quale non corrisponde peraltro alcun beneficio reale per la collettività e il cui costo viene di nuovo scaricato sulle bollette. L’aumento del costo del gas contribuirà invece a ridurre la competitività delle imprese italiane, già molto penalizzate dagli enormi e aberranti sussidi concessi al fotovoltaico e alle altre energie rinnovabili, che hanno accresciuto del 50 per cento il costo dell’energia prodotta in Italia.
In conclusione, questo decreto sembra tutto il contrario di quello che ci si sarebbe potuti aspettare da un governo che si ammanta della bandiera della concorrenza e della semplificazione burocratica.

*Allievo di Francesco Forte, ha lavorato come economista al Fondo Monetario Internazionale, quindi come dirigente nel settore finanziario di una multinazionale. Tra il 1980 ed 1984 è stato direttore esecutivo della Banca Mondiale. Ha quindi  insegnato, all’Università di Bergamo, i corsi di Politica economica e Scienza delle finanze e, per due anni, Finanza alla LUIS. Oggi in pensione, svolge attività di consulenza.

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