Undici anni dopo il default del dicembre 2001, l’Argentina viaggia nuovamente spedita verso il disastro con i suoi titoli di Stato che rischiano di tramutarsi un’altra volta in carta straccia. Fitch ha ridotto di cinque livelli il suo voto sull’affidabilità di Buenos Aires (da ‘B’ a ‘CC’) e giudica probabile una nuova insolvenza. Il fatto che inizino a svegliarsi persino le agenzie di rating, che nel 2001 non brillarono certo per tempismo, dà il senso dell’effettiva gravità della situazione.

L’ultima cannonata contro una nave che già imbarcava acqua l’ha sparata un giudice di New York condannando Buenos Aires a risarcire 1 miliardo e 300 milioni di dollari agli hedge funds Elliot Management e Aurelio Capital Management. Questi fondi speculativi sono in possesso di titoli di Stato argentini coinvolti nel default del 2001 e acquistati a prezzi da saldo ai tempi del crack ma, a differenza del 93% dei detentori, non hanno aderito alle ristrutturazioni del 2005 e 2010 che tra allungamenti delle scadenze e sforbiciate agli interessi offrivano un rimborso pari a circa il 35% del valore originario dei titoli. Hanno invece preteso nei tribunali statunitensi il rimborso integrale dei loro titoli più gli interessi maturati dal 2001 e i giudici hanno dato loro ragione. La scadenza per il versamento era stata fissata al prossimo 15 dicembre, quando l’Argentina dovrà pagare anche 3,3 miliardi ai possessori di bond che hanno accettato la ristrutturazione. Ieri la Corte d’Appello ha però prorogato la scadenza al 27 febbraio 2013 dando così un po’ di respiro alle casse di Buenos Aires.

Al di là della tempistica, giuridicamente la sentenza ha suo peso e rischia di diventare un pericoloso precedente per tutti quei governi che al di qua e al di là dell’oceano sono alle prese con debiti pubblici fuori controllo, Grecia in primis. Non a caso fondi e banche d’affari gongolano. Subito dopo la condanna il direttore esecutivo di Jp Morgan Vladimir Werning ha ad esempio affermato che la decisione rappresenta “un punto di svolta che sposta l’equilibrio di poteri tra stati e creditori privati a favore dei secondi”.

Nella pratica la sentenza è però aggirabile piuttosto facilmente. In soldoni i giudici statunitensi affermano che Buenos Aires deve rimborsare i gli hedge funds che hanno vinto la causa oppure i suoi conti verranno bloccati e si fermeranno anche i rimborsi a favore degli altri creditori. Come spiega Vincenzo Somma, responsabile economico-finanziario di Altroconsumo, l’eventuale blocco riguarderebbe però solo le banche che operano in territorio statunitense e l’Argentina avrebbe dunque gioco facile nel superare questi vincoli facendo transitare i fondi a favore dei possessori di titoli ristrutturati attraverso banche di altri paesi, Venezuela in primis. “Tuttavia, aggiunge Somma, il nostro consiglio per i risparmiatori che hanno ancora in mano titoli argentini è uno solo: vendere comunque il prima possibile”.

Un “si salvi chi può” che ha ben ragion d’essere se si considera la storia di “insolvente seriale” dell’Argentina e che la sentenza in realtà non fa altro che accelerare della resa dei conti. La verità, ben più amara, è infatti che l’Argentina la fossa se la sta scavando da sola già da qualche anno. Superato lo choc del default di fine 2001 il paese ha conosciuto una stagione di crescita economica tumultuosa. Tra il 2003 e il 2007 il prodotto interno lordo è aumentato a ritmi dell’8/9 per cento l’anno, una perfomance seconda soltanto a quella della Cina. Da molti osservatori l’Argentina è stata indicata un po’ frettolosamente come il modello virtuoso da seguire per gestire e superare una crisi del debito.

In realtà Buenos Aires ha potuto sfruttare una serie di condizioni favorevoli che sono venute meno con la crisi del 2008. In particolare una crescita globale sostenuta con alti prezzi delle materie prime agricole e un cambio del peso particolarmente competitivo hanno fatto volare le esportazioni e garantito all’Argentina costanti surplus di bilancio. Già a fine 2005 Buenos Aires aveva accumulato riserve in valuta estera per circa 28 miliardi di dollari. Nonostante l’abbondanza di fieno in cascina e il periodo di vacche grasse il paese ha però mancato l’occasione per mettere mano a riforme strutturali, al rafforzamento del sistema bancario e per costruirsi una affidabilità che le permettesse di ritornare a offrire titoli sui mercati. La crisi internazionale del 2008 ha così riportato tutti i nodi al pettine.

Il governo di Cristina Kirchner , in carica da fine 2007, non sembra aver fatto altro che peggiorare le cose. In particolare le mosse di politica monetaria stanno avendo effetti disastrosi. A fine marzo 2012 il governo ha ridotto l’indipendenza della banca centrale argentina forzandola a stampare moneta a più non posso per metterla a disposizione del governo e finanziare così nuova spesa pubblica. Di pari passo, secondo molti osservatori. si sono iniziati a manipolare i dati sull’inflazione che oggi viene ufficialmente indicata al 25% ma che in realtà potrebbe essere almeno doppia. Il tutto condito con misure restrittive sull’acquisto di valuta straniera e in particolare di dollari.

Il paese risulta così sempre più isolato nel contesto internazionale e questo costringe Buenos Aires a contare solo sulle proprie forze per il rimborso dei suoi debiti. Il più delle volte infatti i paesi reperiscono i soldi per ripagare i titoli in scadenza emettendo nuovi titoli di Stato ma nessuno in questo momento è comprensibilmente disposto a comprare bond argentini. Il tutto mentre il gettito fiscale rallenta a un ritmo superiore rispetto a quello della spesa pubblica. La situazione appare insomma ormai fuori controllo e i famigerati CDS, strumenti finanziari che permettono di assicurarsi contro il fallimento di uno stato ma che vengono spesso utilizzati anche a scopi speculativi, hanno superato i 6500 punti,il livello più alto del mondo.

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